Le Missioni dei Gesuiti tra XVI-XVII secolo

di Franco Ferrari

            Sin dalla sua fondazione la Compagnia di Gesù pose, come scopo principale della sua esistenza, l’impegno per tutti i suoi adepti di condurre un’attività di apostolato continuo ed itinerante, sul modello dell’attività predicatrice degli apostoli ed in particolare di quella  di San Paolo. A tale scopo venne istituito, dai fondatori dell’Ordine, il quarto voto che, oltre i tre tradizionali voti che venivano rispettati dagli ordini regolari (castità, povertà e obbedienza)[1] obbligava, circa missiones, i Gesuiti a essere pronti a partire ovunque il                         Papa desiderasse inviarli, così da servire al meglio gli interessi del Vicario di Cristo ediffonderne la parola. Questo giuramento di mobilità rappresentava un vero e proprioallontanamento dalla tradizione degli ordini precedenti, che, a differenza dei Gesuiti,ricercavano la propria santificazione nella stabilità e tranquillità del monastero, eliminando ogni possibile contatto con il mondo secolare e le genti che lo popolavano.

Al fine di eseguire il proprio lavoro apostolico in modo attento ed ordinato, la Compagnia istituì delle circoscrizioni territoriali, chiamate province, al cui vertice si trovava un Superiore o Provinciale, il quale era nominato dal Generale dell’Ordine e sottoposto solamente ad esso. Alla morte di Ignazio di Loyola (Loyola, 1491 circa-Roma, 1556) erano state già istituite 12 province, sparse tra Europa, Africa, Asia e Americhe.

Il Generale della Compagnia veniva eletto e ricopriva la sua carica a vita, egli rappresentava l’apice della rigida gerarchia dell’organizzazione religiosa e doveva essere portatore delle virtù cardine dell’Ordine, l’autorità che questo deteneva sui suoi confratelli era seconda solo a quella del Papa. Naturalmente per controbilanciare il potere del Generale fu subito istituita una congregazione generale formata da tre Superiori provinciali provenienti da ciascuna provincia e due Padri professi, che venivano scelti dalla maggioranza delle rispettive congregazioni generali dei propri territori. Questo organo, oltre ad eleggere il Generale dell’Ordine, vegliava sul suo operato ammonendolo o addirittura deponendolo in caso di gravi mancanze nei confronti del suo ufficio. Questa sorta di separazione dei poteri tra centro e periferia e tra leader e assemblea, oltre a essere molto progredita, permetteva sia  un’ottima governabilità, sia delle azioni più mirate ed efficaci caso per caso[2].

            L’Ordine, fondato su tali sani principi, crebbe velocemente, sia nei numeri che in influenza.  Dai dieci membri fondatori[3] si arrivò, in appena sedici anni, a circa mille che operavano per la Compagnia di Gesù nell’anno della morte di Sant’Ignazio; in seguito, i Gesuiti sarebbero arrivati a contare intorno ai tredicimila effettivi al tempo della morte del quinto generale                                                                                        Claudio Acquaviva (1615).

La maggioranza dei nuovi adepti veniva da terre saldamente cattoliche, in particolare da: Portogallo, Spagna e Italia. La forte componente iberica ed italica comportò una     maggiore influenza dell’ordine all’interno di quei territori e nelle colonie appartenenti. In particolare gli stretti legami con la corona lusitana favorirono l’esportazione dell’attività missionaria verso i territori dell’impero commerciale portoghese che, all’epoca, si espandeva dall’Oceano Atlantico a quello Indiano. Fu proprio su richiesta di Re Giovanni III, desideroso di convertire i popoli delle Indie Orientali, che il basco Francesco Saverio (uno dei compagni originari di Ignazio) venne spedito a Goa, dove arrivò nel 1542; ivi iniziò una precisa ed attenta attività missionaria che lo portò ad operare in varie parti del lontano Oriente e a porre le basi per le successive missioni che sarebbero penetrate in vasti territori asiatici. Da questo terminus post quem i Gesuiti, sulle orme di Francesco Saverio, iniziarono a diffondere la parola di Dio nei territori extraeuropei. Nuove missioni vennero avviate: in India nel 1545, nel Brasile portoghese dal 1549, in Congo nel 1548 e in Etiopia nel 1555. Alla fine del 1557 circa centoquindici membri della Compagnia di Gesù erano impegnati in Asia e circa una ventina in Brasile[4].

            Sul continente americano, il monopolio sulle conversioni era stato, in una prima fase, in mano ai Francescani, i quali attuarono un modello di missione                      che definiremo millenaristico. Loro si impegnarono, infatti, in una predicazione universale del Vangelo, che avrebbe aperto la strada alla fine dei tempi, attraverso battesimi di massa delle tribù indigene. Questa procedura di cristianizzazione alquanto superficiale e, in fondo poco efficace, va correlata alla coincidenza cronologica che la conquista iberica del Nuovo Mondo ebbe con la diffusione della Riforma protestante; i Francescani vollero impegnarsi nella missione di salvare tante anime sul Nuovo Continente  quante Martin Lutero ne aveva sottratte nel Vecchio alla Chiesa Cattolica.

In antitesi a questa usanza, più mirata alla quantità che alla qualità delle conversioni, siandò formando nella seconda metà del ‘500, una nuova idea di missione che, liberata dalle concezioni profetiche e millenaristiche, vedeva l’impegno della diffusione evangelica come un compito di lunga durata, il cui obiettivo sarebbe stato la completa conversione dei popoli attraverso una educazione alla fede e una stretta convivenza con loro.

I Gesuiti furono i principali esecutori di questa nuova forma di missione, in particolare loro s’impegnarono nell’apprendere le lingue e gli aspetti culturali (i meno radicali fra i Gesuiti) delle tribù presso cui si stabilirono, col doppio fine di predicare in un idioma intellegibile e di cercare delle convergenze tra le religioni naturali dei nativi ed il cattolicesimo; tali pratiche vennero definite dallo stesso Francesco Saverio come un farsi  fanciulli, così da essere puri e pronti a imparare nuove culture. Ciò rappresentò un taglio netto rispetto agli Ordini precedenti che erano soliti fare piazza pulita di tutto il sostrato culturale precolombiano, considerato come un inganno demoniaco da eliminare[5].

Alle missioni educative americane si affiancarono quelle condotte in Oriente, in particolare quelle condotte nei floridi Imperi della Cina, dell’India e del Giappone; in questi territori                        le pratiche di adattamento dei Gesuiti raggiunsero delle nuove vette: non era insolito vedere dei membri dell’Ordine frequentare corti e città nipponiche indossando le vesti di                    monaci zen o indossare degli abiti da mandarini nei palazzi cinesi. Il famoso gesuita marchigiano Matteo Ricci (1552-1610), che operò a Canton e a Pechino, era solito                            indossare i tradizionali vestiti di corte di seta e dai colori sgargianti e arrivò, addirittura, a farsi crescere i capelli per raccoglierli nella tipica treccia manciù. Fu grazie a questa  pragmatica tolleranza verso le ritualità non romane, che uomini come il Ricci o Francesco  Saverio riuscirono a farsi strada tra società altamente raffinate e a diffondere la Compagnia di Gesù per tutta l’Asia.

            Con il crescere dell’Ordine ed il moltiplicarsi dei suoi adepti crebbe anche la corrispondenza e i resoconti che, dalle Indie Orientali e Occidentali, venivano inviati in Europa. Queste missive non raccontavano solamente i fatti relativi all’apostolato che si andava compiendo ma riportavano ed enfatizzavano i particolari che potessero smuovere i bollenti spiriti dei giovani lettori. Le lettere dello stesso Francesco Saverio erano cariche di descrizioni delle regioni attraversate, dei costumi delle popolazioni che si incontravano, degli immensi pericoli che il viaggiatore poteva incontrare, dei lunghi viaggi in mare e di altri particolari avventurosi. Queste narrazioni di misteriose terre esotiche non dovevano suscitare emozioni troppo diverse da quelle che avrebbero provato, secoli dopo, i lettori dei romanzi d’avventura                                  di Emilio Salgari e il fascino di terre misteriose e lontane contribuiva ancora di più a far nascere un desiderio per le Indie nei destinatari, ulteriormente amplificato da esplicite richieste che invitavano il lettore ad aumentare le file degli annunziatori del Vangelo.

Fu così che, grazie a queste nuove de India, si diffuse rapidamente il fenomeno delle Indipetae, cioè “le richieste”, spesso insistenti, che i giovani Gesuiti inviavano al Generale dell’Ordine per essere inviati a predicare nelle Indie; da qui il termine usato per indicarle                                 da Petebant Indias. Purtroppo questo desiderio veniva spesso spento sul nascere: delle numerose domande di partenza che venivano spedite al Padre Generale, pochissime venivano accettate e molti degli Indipetentes, frustati dal diniego, arrivavano addirittura a  spedire ulteriori richieste lamentando pericoli per la propria salute e anche per la propria  anima se non fossero stati infine spediti in missione[6]. Era compito del Generale dell’Ordine decidere chi sarebbe potuto partire e, data la grande adesione, questa         scelta doveva essere operata in maniera molto attenta; si valutavano, infatti, le doti fisiche   del richiedente, le sue facoltà intellettive, le conoscenze e, soprattutto, la sincerità della                            sua vocazione che rischiava, spesso, di essere macchiata da una maggiore volontà per il viaggio che per le conversioni dei popoli delle Indie[7].

 

La scoperta delle Indie interne

            Nel mezzo di questa “frenesia indiana” e  con le attenzioni dei missionari rivolte ai quattro angoli del mondo, quale era la situazione nel continente europeo? L’Europa presa in considerazione non è quella delle ricche città e della cultura rinascimentale ma quella delle campagne in cui viveva la maggioranza della popolazione e che più di tutti subiva  gli effetti delle guerre e dei saccheggi che spesso a queste si accompagnavano. I                        drammatici eventi bellici, molto frequenti nella prima età moderna, aggiunti a una povertà ampiamente diffusa e a una mancanza di collegamenti con i vari tipi di                         giurisdizioni e poteri da cui queste comunità rurali dipendevano, portarono, da un lato alla degradazione degli edifici di culto, dall’altro a un distaccamento del clero locale dalla struttura ecclesiastica. Gli stessi Vescovi erano lontani dalle loro diocesi che spesso  lasciavano senza una guida, come Martin Lutero aveva tempo prima denunciato, e anche  i parroci erano spesso assenti o totalmente ignoranti. Il popolo abbandonato a se stesso mantenne viva una tradizione religiosa che affondava le proprie radici nel folklore e nella  magia con una ritualità pervasa di simbologie pagane e superstiziose che, agli occhi di un religioso, non dovevano apparire troppo diverse da quelle degli indios delle Americhe. Lentamente questa nuova consapevolezza prese piede e si cominciò a guardare alle lande  più desolate e povere del Vecchio Continente come a delle nuove terre di missione. Così dalla seconda metà del Cinquecento si diffusero nei carteggi e nelle lettere dei Gesuiti i termini di otras Indias e “Indie di quaggiù” per indicare territori tutt’altro che lontani ed                              estranei[8].

            Tra i primi, a usare questo termine, figura Silvestro Landini (Malgrate, provincia di Lecco, 1503-Bastìa, 1554), gesuita originario della Lunigiana, la cui esperienza di apostolato può essere significativa per comprendere al meglio la diffusione di questo fenomeno delle “Indie interne”[9]. Il Landini fu un missionario                                                molto prolifico che divise il proprio operato fra l’entroterra italiano, in particolare in Garfagnana e in Lunigiana, e la Corsica. Già durante il suo operato nella Toscana settentrionale (1547-1550), dimostrò una profonda vocazione e laboriosità predicando incessantemente in più di centocinquanta borghi e villaggi; qui portò avanti una estenuante lotta contro la diffusione di eterodossie filo riformate che, dalla vicina Lucca (definita città infetta dal morbo luterano[10]), si propagava per tutto il territorio circostante andando spesso a intrecciarsi col sostrato paganeggiante della religiosità contadina. Silvestro Landini operò saggiamente facendo un’azione a tutto campo che consisteva in predicazioni dirette alle masse dei fedeli, nella facoltà da parte sua di assolvere dal peccato di eresia (potere che fu lui personalmente a richiedere e che gli venne accordato), nella pubblica denuncia degli eretici e degli errori ereticali, nella promozione di confraternite del Corpus Domini e nell’istituzione di iniziative caritatevoli-assistenziali. Non di meno s’impegnò nel sanare fratture all’interno delle comunità e nel pacificare le liti tra fazioni contrapposte. L’operato del Landini si rivelò vincente e la sua eco si diffuse così tanto da farne un modello per le successive missioni popolari gesuite in Italia che, in varie parti dello Stivale, tentarono di normalizzare le espressioni devozionali e di istruire il popolo a una corretta religiosità[11].

La missione più celebre del gesuita lunigiano sarebbe avvenuta nel 1552 quando, dopo una serie di viaggi per l’Italia settentrionale, avrebbe deciso di partire dalla Liguria per l’isola di Corsica dove avrebbe condotto delle nuove opere di evangelizzazione. Imbarcatosi il sedici novembre a Genova, insieme al confratello portoghese Emanuele Gomez, il Landini dovette rimandare i suoi piani: difatti il brigantino su cui viaggiava venne colpito da una tempesta che sembrava destinata a farlo affondare ma che, infine, lo fece incagliare miracolosamente sugli scogli dell’isola di Capraia dove il gesuita fu costretto a un soggiorno forzato di circa un mese. La permanenza sull’isola dell’arcipelago toscano diede modo al Landini di fare la conoscenza con una nuova e sorprendente realtà fatta di estrema povertà, ignoranza e soprattutto paura per le continue  scorrerie che la pirateria turca operava sul territorio, cose che rendevano la vita degli isolani quanto mai incerta e magra.

Ivi trovassimo grandissima ingnorantia di Dio, le Chiese roinate, il sacerdote che non sapeva la forma della consecratione, soldato e con figliuoli (…), quasi tutti vanno scalzi, all’inverno per la povertà dormeno sulla nuda terra (…). Tal persone di cinquanta anni è, che mai si satio di pane (…)[12].

            Se il periodo passato sulla piccola isola aiutò il padre gesuita ad affinare le proprie tecniche di apostolato e a scoprire una realtà di miseria allarmante, fu in Corsica che il Landini avrebbe trovato la sua “India”. Uomini adulti e ormai anziani che non sapevano recitare il “Padre Nostro” e neanche segnarsi, sacerdoti che praticavano il concubinato e neanche conoscevano il latino, uomini che pur essendo sposati formavano nuove relazioni perché le mogli erano state rapite dai pirati ma soprattutto una diffusa ed imperante superstizione, tutto ciò poteva essere osservato nei dintorni di Bastìa. Le stesse lettere del  Landini riportarono l’apparente eccezionalità del luogo:

Non ho mai provato terra, che sia più bisognosa delle cose dil Signor di questa, che questa isola                                sarà la mia India, meritoria quanto quella del Preste Giovanni, perché qua c’è grandissima ignorantia de Dio (…)[13].

Còrsi e Capraiesi, malgrado la loro ignoranza sulle cose di fede, erano proprio come gli indiani americani, aperti a esse e volenterosi di apprendere e di seguire i dettami dei due                                   gesuiti. Viaggi pericolosi, mari infestati dai pirati turchi, povertà, ignoranza, atteggiamenti pagani accompagnati da bontà e inclinazione naturale alla giusta dottrina, l’esperienza del Landini sembrava uscire direttamente da un resoconto delle missioni extraeuropee, le Indie non erano più un luogo lontano ed esotico, le Indie erano in Europa,  sotto gli occhi della Chiesa da sempre[14].

In seguito questo termine di “Indie interne” venne allargato a tutti i territori dove vivevano  genti selvatiche: isole, villaggi montani e campagne di tutta Europa divennero terre di missione.

I contadini della Castiglia venivano visti come i nativi americani, entrambi erano privi di cultura e in condizioni servili (l’America spagnola e i suoi abitanti furono sottoposti a un regime feudale simile a quello iberico); altri popoli, come  i Sardi, venivano visti, addirittura, peggiori dei selvaggi. Sottolineava, infatti, il    Vescovo Ludovico De Cotes che sarebbe stato più facile formare alla fede gli indiani del Perù che non quest’ultimi (i Sardi) poiché mentre ai Peruviani andava semplicemente  insegnata da zero la dottrina cristiana, ai Sardi andavano prima cancellati precetti e tradizioni erronei che questi si tramandavano da secoli.

            Senza la scoperta dell’America e degli Americani questa nuova consapevolezza sarebbe stata impossibile; se, infatti, un tempo le classi servili e più ignoranti d’Europa vennero paragonate agli animali o a dei bambini -grazie al confronto, ora possibile, con un’altra umanità naturalmente gentile ma totalmente estranea agli schemi culturali europei- adesso si poté effettuare un allontanamento intellettuale che permise di guardare ai contadini vicini come a delle società remote, in una maniera molto simile a quella con cui gli antropologi       moderni studiano i meccanismi delle società industriali. I resoconti dalle Americhe e quelli europei portarono a galla tutte le analogie che correvano tra le vere Indie e le Indie                                            por acà. Ciò rese il sentimento di conquista religiosa non più un fenomeno limitato solamente all’esterno ma anche all’interno. La predicazione interna ed esterna avrebbe quindi permesso di raggiungere la purezza originaria a una Chiesa che, da lungo tempo, viveva una profonda crisi.

La possibilità di trasferire il fascino delle alterità esotiche a delle realtà familiari e prossime, fu còlta come una grande opportunità da parte delle alte sfere dell’Ordine che poterono indirizzare i desideri dei giovani adepti verso territori che i loro ferventi spiriti erano  solitisnobbare.

Come visto in precedenza, le attenzioni dei membri dell’Ordine erano tutte  rivolte verso il Nuovo Mondo e il continente asiatico (vedi il fenomeno delle Indipetae), l’essere inviati a predicare sul proprio continente era perciò considerato una sorta di disonore o di punizione. L’apostolato in terra europea, secondo molti Gesuiti, avrebbe impedito di raggiungere la gloria nel nome di Cristo, gloria che sarebbe stata possibile ottenere solamente convertendo nuovi popoli o diventando martiri in terre lontane. Così l’utilizzo del termine di “Indie interne” trovò ulteriore fortuna: se, infatti, le aspettative di un  avventuroso e lungo viaggio verso il Giappone potevano essere disilluse da un ordine con il quale alcuni Gesuiti venivano mandati  nei vicini Abruzzi o in Sicilia, la promessa di trovare immense difficoltà, tra briganti sulle montagne e pirati nei mari, e soprattutto anime ben disposte a essere cristianizzate poteva riaccendere la fiamma nel prescelto[15].

            Questa scoperta delle “Indie di quaggiù”, quindi, ebbe questa duplice matrice ma portò comunque a un importantissimo risultato: essa infatti cambiò il metodo con cui si affrontavano il dissenso e le differenze religiose. Il compito dell’operaio evangelico gesuita era, per definizione, un compito apostolico che prevedeva una predicazione pacifica e, per lo più, accomodante che avrebbe, poi, aspettato di raccogliere i suoi frutti. Ciò si opponeva radicalmente al metodo giudiziario, tradizionalmente operato dall’Inquisizione, che agiva in maniera violenta e distruttiva nei confronti di pratiche non  conformi alle leggi della Chiesa.

Se i territori periferici dell’Europa cristiana apparivano come delle Indie questo significava che l’ignoranza del popolo e l’indolenza del clero avevano provocato un certo allontanamento
dai princìpi della fede. Vivendo a stretto  contatto sia con i popoli extraeuropei che con i popoli delle montagne o delle campagne del Vecchio Continente, i Gesuiti, più di tutti, si resero conto che non vi fossero troppe differenze tra i selvaggi dell’Amazzonia e i contadini delle terre d’Otranto o tra gli indios idolatri e i moriscos o i marrani che mantenevano le tradizioni delle loro precedenti fedi. Non erano eretici o devoti a Belzebù ma uomini e donne ignoranti e pagani: che fosse stato perché battezzati velocemente e senza ricevere alcun insegnamento del Vangelo, come lo era stato per gli indios, o perché, per incuria dei propri pastori, avevano perso memoria di questi  insegnamenti, il risultato era lo stesso. Qui entrava in gioco il ruolo del gesuita che, superando i  mezzi dell’Inquisizione, avrebbe poi ristabilito quel rapporto di completa fiducia e amore  tra i fedeli e la Chiesa che era esistito al tempo degli Apostoli[16].

 
Le Indie italiane

             L’apostolato della Compagnia di Gesù prese piede nelle lande più desolate e povere dell’Europa, fra tutte però l’Italia divenne una delle terre d’elezione per l’azione dei                       missionari. Il Bel Paese, malgrado fosse il centro della cristianità, culla del Rinascimento  e sede di alcune delle città più dinamiche e importanti del Mediterraneo, era anche luogo di continue guerre tra le grandi monarchie del continente che, sin dalla fine del ‘400, si scontravano per il controllo degli Stati rinascimentali devastandone le campagne e riducendo buona parte della popolazione in povertà.

Inoltre, malgrado la Chiesa trovasse la sua sede proprio nel cuore della penisola, il clero secolare era abbastanza distante dal popolo che, oltre a essere a volte superstizioso, era anche influenzato dal “germe” protestante che, alquanto inaspettatamente, trovò un terreno relativamente fertile nelle città italiane e nei loro circondari; capoluoghi e corti importanti, come Venezia, Ferrara, Lucca, Siena, Mantova e Modena, non si opposero dovutamente alla circolazione delle idee  luterane e calviniste e videro anche l’attività di alcuni dei più importanti pensatori che influenzarono il movimento riformistico europeo (come Fausto e Lelio Sozzini, Bernardo Ochino o i Diodati di Lucca)[17]. I motivi di tale diffusione erano associati a una avversione verso il potere pontificio ma anche a una rinnovata vitalità dei movimenti ereticali tipici del Medioevo come i Valdesi che, ancora diffusi tra le valli dello Stivale, vennero visti come precursori di Lutero e Calvino[18].

Il popolo delle campagne, invece, privato, a volte, della guida di Vescovi e di Pastori e delle loro promesse di salvezza eterna, cercò a volte consolazione e cura, per le difficoltà economiche che lo  attanagliavano, proprio nelle credenze magiche e pagane che il Cristianesimo aveva cercato di cancellare per secoli. Pratiche superstiziose erano diffuse in alcuni ambiti della vita dei popolani e in diversi luoghi della Penisola; una fonte preziosa per rintracciare questi “atti del demonio” proveniva dai Sinodi delle diocesi italiane dove Vescovi e curati riportavano, a volte, le loro preoccupazioni per le infiltrazioni luciferine di cui, in determinate circostanze, la povera gente era preda.

            Il popolo rurale, a volte, era attivo nel praticare antiche festività o nel produrre  malocchi o strani riti e poteva capitare che, parte di esso, si credesse vittima di questi malefici e quindi cercasse in ogni modo di sfuggirne. Un esempio era l’usanza di svolgere, in determinate circostanze,  matrimoni in segreto per paura di incorrere nell’incantesimo della legatura[19] da parte di  rivali amorosi o invidiosi mentre un altro esempio consisteva nella pratica dei secreta colloquia, formule rituali che alcune anziane, trasmettitrici di pratiche esoteriche, sussurravano a volte ai novelli sposi proprio per cacciare via tale maledizione e garantire una regolare consumazione del matrimonio[20]. Anche un momento di passaggio così fondamentale per la fede cristiana, come la morte, ogni tanto veniva accompagnato da pratiche che si distaccavano dalla dottrina della Chiesa; il caso specifico è quello del compianto funebre -abbastanza diffuso in varie aree del Meridione, in particolar modo in Lucania e nel Catanese- che prevedeva delle donne che, pagate all’uopo, seguissero il corteo funebre disperandosi e compiangendo il defunto in maniera particolarmente esaltata. La teatralità di questo genere di manifestazioni non solo urtava i gusti severi degli anni post-tridentini ma, soprattutto, si scontrava con la fede cristiana; le prèfiche[21] infatti piangevano così drammaticamente la scomparsa dei loro compaesani come se questi non avessero speranza di resurrezione[22].

Numerose e diffuse, fra tutti gli strati bassi della società, erano le feste e le ritualità popolari che spesso si svolgevano parallelamente alle ricorrenze religiose o in contrapposizione a esse. Fossero esse sovvertimenti scherzosi e licenziosi dell’ordine prestabilito, come i carnevali o le feste dei folli, o veri e propri riti propiziatori come le feste del maggio dedicate ai corteggiamenti e all’amore, le abluzioni del Sabato Santo tipiche degli Abruzzi o i balli frenetici che si tenevano nella notte dell’Ascensione nel Perugino[23].

Nel medesimo luoco fo mandato li giorni passati, acciò levasse un cattivo costume che lì era invecchiato, perché solevano la notte dell’ascensione del Signore li huomini mesciati insieme colle donne ballare et far molte cose non molto honeste[24].

            Questo genere di celebrazioni pagane e superstiziose era inerente a tradizioni mai scomparse con l’avvento del Cristianesimo e che, nei lunghi secoli del Medioevo, si erano mantenute vive grazie alla trasmissione di padre in figlio. Lo scopo principale, oltre a quelli del controllo sulla natura e della propiziazione, era quello di sovvertire l’ordine prestabilito della società  e di rendere gli oppressi momentaneamente liberi dai propri doveri verso il potere politico  e quello religioso e, infatti, spesso erano celebrate finte messe e prediche impudìche e licenziose  che si prendevano gioco delle autorità ecclesiastiche e in generale schernivano  ogni gerarchia spirituale e temporale a cui normalmente si ubbidiva.

La scarsa alfabetizzazione delle campagne e, a volte, l’assenza di un clero preparato e disponibile nei confronti del popolo, rese molti, degli abitanti di queste aree, ignoranti dei princìpi della fede e anche della devozione alla base di essa e, addirittura, frequentemente confondevano le varie figure intermedie del Cristianesimo con un pantheon di divinità. Se un concetto fondamentale come quello  della SS. Trinità è stato oggetto di dispute fra teologi e, spesso, ha rappresentato una sfida spiegarne i caratteri anche per i più importanti esponenti della Chiesa, per i semplici doveva rappresentare un vero e proprio mistero.

Ma andando oltre un elemento di dibattito religioso come questo, anche gli aspetti più semplici -come le preghiere alla base del Cristianesimo, il Pater Noster e l’Ave Maria– erano ai più sconosciuti o ripetuti in maniera tentennante e piena di strafalcioni; spesso anche gli stessi chierici si esprimevano in un latino che lasciava a desiderare storpiando  le orazioni: Molti non si sapevano signar e i canuti non sanno il Pater Noster e l’Ave Maria e gli stessi sacerdoti non conoscevano la forma non dico delli sette sacramenti della Chiesa ma dil sacramento dell’altare[25]. Ma fra tutte queste lacune religiose del popolo, una sembrava scuotere il concetto stesso di “Europa cristiana”: molti membri dei ceti più bassi, quando erano interrogati su quante Divinità dovesse adorare il cristiano,  rispondevano “chi cento, chi mille, chi altro numero maggiore”[26].

Ignorare un punto fondamentale del Cristianesimo, come l’idea di un solo Dio, farebbe quasi pensare che, effettivamente, la cristianizzazione del Vecchio Continente sia avvenuta dopo la regolarizzazione tridentina con i suoi dogmi fortemente precisi e istituzionalizzati, resi accessibili nella forma semplificata del catechismo. Probabilmente tutto quello che si allontanava da ciò che è materiale, per quanto riguardava la fede, soprattutto i concetti più astratti, dovevano essere abbastanza lontani dalla coscienza dei contadini e dei popolani che molto ignoravano e, sul poco che sapevano, dovevano trovarsi in confusione e,  a volte, in opposizione con quanto gli ecclesiastici promuovevano. Capitava che gli stessi membri del clero contribuivano a diffondere tali pericoli luciferini: diversi missionari erano  infatti soliti spiegare il concetto della Trinità divina attraverso il paragone con il sole. Esso pur essendo il centro del firmamento, la sorgente della luce e del calore, rimaneva sempre e solo uno, come Dio pur essendo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. C’era pericolo che il sole, da semplice paragone, diventasse esso stesso Dio agli occhi dei fedeli. Durante l’ufficio della messa con il sollevamento dell’ostensorio, che richiamava a tutti gli effetti l’immagine di un sole dorato e splendente, e con l’adorazione da parte del prelato e dei laici, questa erronea interpretazione non fece che reiterarsi, portando, a volte, alla diffusione di culti solari in molte campagne, anche alle porte di Roma; difatti, come appurato dai  seminaristi del Collegio romano dei Gesuiti nel 1561, frequentemente i popolani non conoscevano altro Dio che il sole, la cui giurisdizione (secondo loro) si estendeva a tutto l’universo[27].

Tutte le credenze e gli errori interpretativi sopra riportati -per quanto potessero sembrare              frutto di eresie o di credenze avverse alla Chiesa Romana e, addirittura, potessero costituire  un pericolo per essa- differivano totalmente dai movimenti ereticali del Medioevo e da quelli      protestanti allora contemporanei; gli uomini e le donne che li seguivano non si contrapponevano agli ecclesiastici e anzi li accoglievano felici e li veneravano come Santi o, almeno, lo facevano quando alcuni di loro si degnavano di visitarli; erano semplicemente delle pecore smarrite che, senza la guida dei propri pastori, si erano allontanate dalla retta via: loro non meritavano punizioni ma lezioni e correzioni che avrebbero fornito le giuste conoscenze sulla fede.

Accomodarsi al popolo

            Vista questa situazione di eterodossia in cui versavano le popolazioni delle campagne italiane alla fine del Cinquecento, quali furono i metodi con cui i Gesuiti condussero l’apostolato in giro per la penisola? L’attività missionaria fu continua e ben radicata in ogni Stato italiano, sin dalla istituzione della Compagnia di Gesù, essa però attraversò due fasi ben  distinte: la prima che andava dalla fondazione dell’Ordine all’inizio del Seicento, e può essere definita per comodità “Fase delle Scorrerie”, mentre la seconda cominciò agli inizi del XVII secolo e può essere denominata “Fase Segneriana”, dal nome di Paolo Segneri (Nettuno, provincia di Roma, 1624-Roma, 1694) grande missionario gesuita i cui metodi avrebbero influenzato tutti i suoi successori.

Le cosiddette scorrerie gesuite, rappresentavano un metodo molto impetuoso e rapido per  riportare sulla retta via le anime delle campagne; in occasione soprattutto della Quaresima, dai collegi delle principali città, i Gesuiti partivano a coppie o in gruppi alla volta dei piccoli villaggi delle campagne. In queste località periferiche i missionari si impegnavano in una vera e propria opera intensiva di apostolato, in un periodo di pochi giorni essi conducevano prediche, confessioni, lezioni  di catechismo, visite alle scuole e al clero e, soprattutto, con il parroco del luogo si tenevano  dei colloqui con cui si cercava di raddrizzarne ogni stortura e di colmarne ogni ignoranza dando vita, diverse volte, a un clima di avversione nei loro confronti da parte dei prelati del posto e, inoltre, cosa importante, fondavano nuove congregazioni mariane che dovevano diffondere i valori della fede e promuovere la concordia tra le varie componenti del popolo[28]. Questa veemenza nel condurre rapide “incursioni” di paese in paese, rese la presenza dei Gesuiti quasi come un fatto miracoloso: l’arrivo di questi missionari in un villaggio scuoteva gli animi di contadini e massaie quasi fossero, i Gesuiti, dei messaggeri del Signore venuti a salvare le loro anime peccatrici.  

            La missione di stampo segneriano, ispirata dall’opera di Paolo Segneri (1624-1694), può essere definita più attenta e paziente rispetto alla fase precedente: l’apostolato  aveva iniziato a evolversi già durante il secondo decennio del Seicento ma le novità segneriane avrebbero modificato completamente i metodi e le azioni dei Gesuiti. In realtà le vecchie “incursioni” non erano del tutto scomparse ma cominciarono a mettersi in sincretismo con il nuovo metodo missionario: si distingueva infatti tra le “missioni parrocchiali rapide”, che andavano in diversi villaggi con un percorso prestabilito che doveva attraversare tutta la campagna, e le “missioni centrali” (o appunto segneriane) che permettevano di catechizzare sia gli abitanti del paese che i residenti delle zone rurali circostanti e che si tenevano per circa dieci giorni per poi passare in un’altra località nelle vicinanze[29].

Ma quali erano le caratteristiche salienti dell’apostolato gesuita? Tra gli aspetti più importanti era la già citata accomodatio. I missionari gesuiti, infatti, erano molto attenti nell’assecondare tutti quei costumi del popolo che, malgrado non fossero esattamente secondo dottrina, risultavano innocui o, almeno, cercavano di modificarli rendendoli il più ortodossi possibile. Il missionario gesuita non disprezzava tutti gli elementi che caratterizzavano le culture popolari ma, piuttosto, li piegava al proprio servizio, così carnevali, costumi e usanze licenziose potevano e dovevano essere fatti propri dai missionari, volgendo gli stessi strumenti licenziosi a loro favore. Così i balli, citati in precedenza, che si praticavano la notte dell’Ascensione nel Perugino, col susseguirsi delle missioni, vennero gradualmente  sostituiti con lunghe veglie e canti religiosi mantenendo viva l’usanza notturna ma tramutandola in una frugale funzione religiosa. La conquista degli spazi festivi e la loro epurazione da ogni aspetto lascivo e carnevalesco fu uno dei punti di partenza dell’apostolato; il successo venne col tempo e con le prediche pubbliche, come lo stesso Silvestro Landini poté riportare, non nascondendo la sua soddisfazione: Non vedete che della settimana di Carnevale s’è fatta la settimana santa?[30]; i Gesuiti   portarono la vittoria dello spirito quaresimale sulla confusione carnascialesca. Ma la platealità e l’espansività tipiche di questo genere di festività popolari furono un utile strumento nelle mani   d e i   Gesuiti. Attraverso l’utilizzo di un linguaggio e di gesti sensazionalistici di gusto tipicamente barocco, la Compagnia di Gesù, avviò una vera e propria conquista della popolazione, la quale venne legata indissolubilmente a una nuova ritualità, in sostituzione della precedente di eredità  medievale. I Gesuiti, infatti, durante le missioni centrali, fecero ricorso a processioni teatrali, ad avvincenti sermoni e a pubbliche conversioni di peccatori convinti, di fronte ad ampie folle, davanti alle cattedrali o nelle piazze principali, producendo scalpore ed emozioni religiose nella gente che assisteva a tali avvenimenti[31]. Nei riti e nelle predicazioni si dava un ruolo centrale ai notabili e ai gruppi sociali prominenti del luogo, il loro esempio esercitava infatti un forte influsso sul popolo. Così si faceva scortare il corteo della processione dalle cariche cittadine e, nelle lezioni che venivano impartite ai giovani, si inserivano tra i popolani i figli delle principali famiglie della città; la conquista degli aristocratici avrebbe in breve tempo aperto la strada alla conquista dei rudes che, nella concezione dell’epoca erano portati per natura a seguire i loro capi[32].

Una tipica missione segneriana aveva inizio con un corteo in cui il Rettore del collegio gesuitico locale sfilava portando il crocifisso, seguito dalle cariche cittadine, dalla nobiltà, dai preti con torce accese e il Santissimo Sacramento che veniva mostrato a tutti i partecipanti annunciando al popolo l’imminente inizio dell’attività di apostolato. Ogni giorno all’alba si esponeva nella pubblica piazza il Santissimo Sacramento e si procedeva poi con la predicazione ai lavoratori; si iniziava poi a predicare nelle varie parrocchie della località e, una volta finito di fare i sermoni, si procedeva a riportare il SS.  Sacramento al palazzo vescovile. Nel pomeriggio si tenevano, invece, lezioni sui princìpi elementari della dottrina cristiana per i fanciulli che venivano così preparati alla Prima Comunione. Dopo i vespri veniva impartito un insegnamento generale a tutta la popolazione, accompagnato da predicazioni e preghiere. Durante tutto l’arco della giornata si invitava il popolo alla confessione e alla pubblica espiazione delle proprie colpe, esercizio propedeutico alla propria riabilitazione nella comunità e che stringeva i legami fra gli abitanti del luogo. La notte si tenevano nuove processioni in cui Gesuiti, clero e membri delle confraternite cittadine sfilavano portando il Crocifisso e dei teschi, a mortificazione della carne, intonando il Miserere in un percorso che, dal convento della Compagnia di Gesù, si avventurava per le zone più malfamate della città dove i peccatori venivano   esortati al pentimento. I partecipanti si avviavano poi alla chiesa dei Gesuiti dove, seguiti  dalla folla raccolta durante la processione, tenevano un ultimo sermone. La giornata si concludeva con gli uomini del popolo che compivano gli esercizi penitenziali tutti insieme dentro la chiesa. Arrivati alla fine dell’opera di apostolato nell’ultimo giorno, che doveva essere esclusivamente una domenica, si procedeva con una grande messa seguita da una predica conclusiva, dalla benedizione pontificale e da un’ultima processione cittadina[33].

            L’istruzione era uno dei caratteri essenziali dell’Ordine: i confratelli erano persone di squisita cultura e la diffusione dell’Ordine per il mondo si accompagnò proprio alla fondazione di collegi che permettesse l’insegnamento scolastico agli abitanti del luogo. Si agiva principalmente sui fanciulli attraverso l’apprendimento delle lettere e loro, più elastici mentalmente degli adulti, avrebbero aperto il proprio ingegno alla dottrina cristiana, un procedimento che risultava molto più difficile condurre sulle persone adulte illetterate e ormai intrise di credenze erronee.

La conoscenza -l’antica promessa del demonio fatta ad Adamo ed Eva, con cui la stirpe umana era stata condannata a causa del peccato- poteva, quindi, diventare lo strumento con cui sconfiggerlo definitivamente. Plasmando nuove generazioni di fedeli istruiti si sarebbe potuto estirpare, finalmente, il germe della superstizione figlia dell’ignoranza dei contadini. Una          peculiarità della Compagnia di Gesù fu proprio il grande impegno nell’istruire le genti delle classi più povere a ogni costo: se altri Ordini religiosi si accontentavano di battezzare o confessare gli uomini e le donne dei villaggi senza insegnare loro i  misteri principali della fede, i Gesuiti erano convinti che, senza la conoscenza della dottrina cristiana,  non poteva esserci salvezza. A tale scopo i missionari gesuiti s’impegnarono, attraverso insegnamenti da tenere a memoria e l’uso di immagini, a diffondere il catechismo anche fra gli adulti analfabeti diventando gli unici a dare una dignità all’intelletto dei semplici che era considerato dagli altri Ordini incapace di memorizzare gli insegnamenti  più basilari[34].

Le scenografie con cui venivano condotte le processioni e le prediche nei confronti del popolo risultavano invece l’artificio migliore per accattivarsi le menti degli adulti: le forti immagini e le penitenze a cui spesso gli stessi missionari si sottoponevano eccitavano le emozioni dei contadini dando vita a un forte senso di ammirazione e a un desiderio di imitazione. Mostrare teschi e ossa, umiliarsi attraversando il paese a piedi scalzi e/o strascinandosi per terra, autoflagellarsi con delle catene, indossare corone di spine e addirittura prostrarsi ai piedi del Crocifisso ammettendo di essere peccatori tanto quanto gli spettatori della predica, erano le manifestazioni principali di questo orror divoto fondato sulla mortificazione della carne; la macabra manifestazione della morte e la minaccia della dannazione, molto di più di fini ed elaborati sermoni, attiravano l’attenzione dei più semplici e li spingevano a rispettare le norme imposte dalla Chiesa. Il fatto che fosse il religioso stesso a prestarsi a questi atti di penitenza realizzava un rapporto indissolubile con i ceti più bassi che erano stati fino ad allora gli unici attuatori di tali pratiche di espiazione.

Il missionario veniva riconosciuto, quindi, come un compagno nella triste condizione umana e non più come un essere superiore libero dal peccato e dalla pochezza della carne[35]. Questi atti di mortificazione corporale a cui il predicatore si sottoponeva, facevano scaturire negli spettatori degli stati d’animo contrastanti: si passava da una sensazione di sbalordimento e di eccitazione -espressa attraverso sospiri, pianti e grida- a    manifestazioni di auto-aggressività. Alcuni, in un momento di esaltazione collettiva,     si schiaffeggiavano o si percuotevano a sangue con grosse funi o con delle pietre. Il fedele   si faceva, così, parte attiva dell’avvenimento diventando contemporaneamente spettatore e  protagonista del rito[36].

            La confessione, da sempre il sacramento che permetteva il contatto più diretto fra i prelati e i fedeli, andava di pari passo con la penitenza che doveva essere effettuata per l’espiazione delle proprie colpe. I Gesuiti la utilizzarono come strumento per la conoscenza dei peccati e delle pratiche eterodosse che erano maggiormente diffusi tra la gente. Una volta colpiti  dalle prediche e dai pericoli nel proseguire pratiche considerate luciferine, uomini e donne  accorrevano verso i missionari nella speranza di ricevere l’assoluzione da tutte le loro colpe. La confessione veniva definita come la conclusione di una buona attività di apostolato sia per il popolo, che così si liberava definitivamente del peso dei suoi peccati, che per i Gesuiti che avevano così compiuto il proprio dovere ed estirpato il seme del male riportando nella grazia di Dio le anime delle terre visitate. I missionari erano, inoltre, consapevoli dell’importanza delle confessioni generali: i parroci del luogo, infatti, a volte, conducevano poche confessioni e spesso incomplete, molti membri della popolazione erano infatti restii dal confessarsi arrivando a farlo solo in punto di morte. Questa resistenza da  parte dei fedeli, probabilmente, rappresentava una sorta di diffidenza nei confronti del parroco che, in quanto membro della stessa comunità, si temeva potesse raccontare i propri segreti alla gente; il missionario gesuita, invece, in quanto persona esterna e sconosciuta alla comunità, risultava più degno di fiducia. Anche la preparazione dei Gesuiti e la loro cultura, di gran lunga superiori a quelle della maggior parte dei parroci dell’epoca, davano una grande abilità nel far comprendere alla gente gli errori commessi e nel condurre al meglio l’espiazione dei peccati[37].

Ma la popolazione come si comportava di fronte a questa “intrusione” missionaria nella vita abituale del borgo? Come visto nelle pagine precedenti, l’arrivo dei Gesuiti in un paese e l’avvio di una missione rappresentavano per gli abitanti del villaggio e dei borghi circostanti un fatto straordinario che interrompeva la normale quotidianità della vita contadina; i territori  rurali erano stati da tempo trascurati dalle alte cariche ecclesiastiche e, a volte, neanche  il Vescovo della diocesi locale effettuava le visite pastorali nei paesi più isolati; i missionari diventavano quindi oggetto di ammirazione e la sola notizia del loro imminente arrivo bastava a scaldare gli animi.

Come accadde spesso al più grande missionario europeo del XVII secolo, Paolo Segneri, al suo arrivo folle di popolani si prostravano ai suoi piedi con donne e ragazzi che spargevano fiori lungo il suo cammino.                                                                                                                

I presenti, spesso, facevano a gara a chi gli stesse più vicino e si spingevano e si strattonavano  cercando di baciargli la veste o di riceverne più dappresso la benedizione[38]. Ma non solo           ai missionari più celebri venivano riservati tali trattamenti, questa gioia popolare colpiva anche i novizi dei collegi gesuiti che venivano inviati a condurre l’apostolato nelle campagne. Così alcuni membri del collegio di Napoli in alcune missioni fatte a Cosenza tra il 1645 e il 1646 poterono osservare che: La stima, poi, che questa gente havea di noi è incredibile; correvano in mezzo delle strade per baciarci i piedi, non mirando s’eran piene di fango o no; quelli che si battevano a sangue nella processione, mentre si battevano, lasciavano la fila per venire a baciarci le vesti; alcuni baciavano la terra che noi havevamo calpestata; tutti vedendoci benedicevano non solo noi ma li nostri parenti e chi c’havea mandato.

Le missioni -in quanto frattura della monotonia paesana ed essendo motivo di appagamento del gusto per le manifestazioni esteriori del culto, molto apprezzate dal popolo, nonché momento di forte aggregazione sociale- divennero, nelle campagne  della penisola, uno degli avvenimenti più attesi e desiderati dalle popolazioni locali alla pari dei periodi relativi alle principali festività[39].

            La fama dei Gesuiti e dei loro metodi si diffuse rapidamente anche fra gli altri Ordini religiosi e fra i membri del clero secolare; se da un lato molte delle loro tecniche di apostolato  furono riprese e utilizzate da altri missionari, dall’altro molte delle loro pratiche e lo stesso Ordine dei Gesuiti furono spesso oggetto di pesanti critiche. Tra le varie congregazioni missionarie diffuse in Italia, quella che più di tutte cercò di riproporre le azioni pastorali tipiche della                  Compagnia di Gesù, fu quella dei Redentoristi, fondata da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori  ad Amalfi intorno agli anni Trenta del XVIII secolo. Questa congregazione, in un’epoca più tarda rispetto a quella dei primi interventi dei Gesuiti, promosse una forte azione missionaria verso il mondo rurale caratterizzata anch’essa da una ritualità piuttosto scenografica e dalla centralità del sacramento della confessione; i Redentoristi utilizzarono anche l’uso di espedienti macabri e di penitenze corporali per poter convertire il popolo. Avversi a questa platealità introdotta dai membri dell’Ordine ignaziano, furono invece i Lazzaristi fondati a Parigi da San Vincenzo de’ Paoli nel 1625; questi favorirono, nello svolgimento delle missioni, un approccio più calmo e contenuto. I Lazzaristi erano convinti che -attraverso la semplicità e la schiettezza, mediante la natura intrinseca dei temi toccati nelle loro prediche- loro avrebbero ottenuto di più con il loro metodo che con le manifestazioni scenografiche e sensazionaliste praticate dai Gesuiti, manifestazioni che venivano viste come poco consone a un Ordine religioso.

Ricordiamo, infine, che anche il clero locale era spesso portatore di una certa avversione nei confronti dei missionari della Compagnia di Gesù: parroci e prelati vedevano l’arrivo nei villaggi dei Padri gesuiti come un’accusa diretta al loro operato e temevano che  dal confronto con questi, più istruiti e più bravi come oratori rispetto alla maggior parte dei preti                         secolari, ne sarebbe derivata la perdita della stima e dell’ossequio da parte della popolazione locale nei loro confronti.

[1] Per un quadro generale cfr.: G. Greco, La Chiesa in Occidente. Istituzioni e uomini dal Medioevo all’età    moderna, Roma, Carocci, 2006.

[2] O’ Malley J. W., 2014, pagg. 4-6.

[3]  Pierre Favre, Diego Lainez, Alfonso Salmeròn, Simao Rodrigues, Francesco Saverio, Nicolás Bobadilla, Claude Jay, Paschase Broet e Jean Codure.

[4]  Luongo C., 2009, pagg. 90-91.

[5] Prosperi A., 1996, p. 7.

[6] Roscioni G.C., 2001, p. 56

[7] Prosperi A., 1996, p. 596.

[8] Prosperi A., 1996, p. 553.

[9] Si veda la voce biografica di S. Ragagli, Landini  Silvestro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 63, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana – Treccani, 2004 (online: https://www.treccani.it/enciclopedia/silvestro-landini_(Dizionario-Biografico).

[10] Adorni Braccesi S., Una città infetta. La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento,   Firenze, Olschki, 1994.

[11] Luongo C., 2009, pagg.102-105.

[12] Lettera di Silvestro Landini a Ignazio di Loyola, Capraia 16/03/1553, in Epistolae Mixtae ex varii Europae locis ab anni 1537-1556 Scriptae, Tomum tertius (1553), Excudebat Augustinus Avrial, Madrid 1900, pagg. 165-171.

[13] Lettera di Silvestro Landini a Ignazio di Loyola, Bastìa 01/07/1553, in Epistolae Mixtae ex varii Europae locis ab anni 1537-1556 Scriptae, Tomum tertius (1553), Excudebat Augustinus Avrial, Madrid 1900, pagg. 370-371.

[14] Prosperi A., 1982, p. 215.

[15] Prosperi A., 1996, p.598.

[16] Luongo C., 2009, pagg. 102-105.

[17] Cantimori D., Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Torino, Einaudi, 1992 (1° ed. Firenze, Sansoni, 1939).

[18] Firpo M., 2008, Pagg. 29-32.

[19] Come riportato dall’Enciclopedia Treccani: “Nel folclore, forma di incantesimo che si propone di provocare la paralisi di un arto o di una facoltà fisica e, in particolare, di ridurre all’impotenza uno degli sposi       durante la prima notte di nozze“, https://www.treccani.it/vocabolario/legatura/.

[20] Viscardi G.M., 2005, pagg. 86-87.

[21] Come riportato dall’Enciclopedia Treccani: “Si indicano le donne che -in passato (ma l’uso non è del  tutto scomparso), presso i ceti contadini di alcune zone dell’Italia meridionale- accompagnavano su commissione i funerali, lasciandosi andare a forme di partecipazione affini a quelle delle antiche”, https://www.treccani.it/enciclopedia/prefica/.

[22] Prosperi A., 1982, p. 231.

[23] Viscardi G.M., 2005, p. 86.

[24] Lettera di G.P. Oliva da Perugia del 23 maggio 1561, Litterae quadrimestres, Volumen VII, 1561-62,  Roma 1932, p. 342.

[25] Lettera di Silvestro Landini a Ignazio da Loyola, Bastìa 07/02/1553, in Epistolae Mixtae ex varii Europae locis ab anni 1537-1556 Scriptae, Tomum tertius (1553), Excudebat Augustinus Avrial, Madrid 1900, pag. 116.

[26] Così risposero dei poveri pastorelli, al missionario Scipione Paolucci, nel Regno di Napoli intorno alla m    e    t     à   del ‘600.

[27] Chatelier L., 1993, pag. 102.

[28] Chavarria E., 2001, pag. 44.

[29] Gentilcore D., 1997, pag. 692.

[30] Lettera di Silvestro Landini a Ignazio da Loyola, Capraia 16/03/1553, in Epistolae Mixtae ex varii Europae locis ab anni 1537-1556 Scriptae, Tomum tertius (1553), Excudebat Augustinus Avrial, Madrid      1900, pag. 173.

[31] Prosperi A., 1982, pag. 225.

[32] Prosperi A., 1982, pagg. 231-232.

[33] Gentilcore D., 1997, p. 696.

[34] Prosperi, 1982, pagg. 222-225.

[35] Majorana B., 1999, p. 91.

[36] Chavarria E., 2001, p. 96.

[37] Gentilcore D., 1997, pagg. 697-698.

[38] Chatelier L., 1993, p. 51.

[39] Chavarria E., 2001, pagg. 87-88.