LA LAPIDE DI BARTOLOMEA DELLA TOLFA DI BISENZO

Appunti genealogici ed araldici sulle due famiglie

Claudio De Dominicis, Giovanna Arcangeli

 

Questo articolo è una riedizione ampliata con l’aggiunta di una premessa di quello pubblicato nel 1993 nel “Bollettino della Società Tarquiniense d’Arte e Storia”[1]. Si è voluto riproporlo di nuovo per ribadire quello che appare proprio un falso storico consolidato nei secoli. Nel Comune di Tolfa i turisti possono trovare la “Rocca Frangipane” e la “Via Frangipani”, e dalla voce su “Wikipedia” si può venire a sapere che “Ludovico e Pietro Frangipane, cinsero l’abitato di mura ed ebbero vivaci contrasti con la Camera Apostolica a causa dei diritti sui giacimenti di allumite scoperti nel 1460-1462 dal cardinale Giovanni di Castro”, che cardinale non fu mai.

Ebbene, per quanto mi risulta, i Frangipane non ebbero mai nulla a che fare con Tolfa. Fu una invenzione della famiglia della Tolfa almeno cinquanta se non cento anni dopo essersi trasferiti nel Regno di Napoli per rendere illustre la propria ascendenza, in un’epoca nella quale abbondavano le false genealogie. Recentemente uno studioso appare ancora convinto di tale discendenza, benché ritenga che “resti una questione ancora aperta”[2].

Sembra che il primo a parlare dei Frangipane antenati dei della Tolfa fu il Contarini nel 1569 ma lui stesso pone in dubbio la notizia: Li Tolfi… hebbero un tempo il dominio di Tolfa, città di Campagna di Roma, nella quale signoriggiarono molti anni. Vogliono alcuni, s’ingannano forse, che questa famiglia sia discesa dalla nobil stirpe de Frangipani gentilhomini romani[3].

Nei manoscritti Jacovacci conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, che riportano migliaia di documenti notarili medievali e fino ai primi del ‘600, alla voce Frangipane mai viene citata Tolfa[4]. Invece, alla voce della famiglia “de Tulfa”[5] il primo documento risale al 1355, esattamente lo stesso anno nel quale ne risultano infeudati i Capocci, che potrebbero dunque costituire la vera origine dei della Tolfa. Forse il motivo per il quale si preferì nascondere tale ascendenza è perché questi furono sempre di parte ghibellina.

Il documento in questione riguarda un Paradiso del fu Nereo di Tolfa Nuova in una causa contro il ghibellino Giovanni de Vico, prefetto di Roma, deposto da meno di un anno dalla signoria di Orvieto ed altri castelli. Il documento successivo, del 1362, riguarda Nerio Baldi dei signori di Tolfa Nuova. Al 1426 risale quello riguardante Egidia “de Tulfa” e, da allora in poi, non c’è più la divisione tra “Nuova” e “Vecchia”. In altri documenti citati nell’articolo, Nerio è detto di Baldo ed è certo da qui che un ramo assunse il cognome Baldi, come ipotizzato dallo Zippel[6], mentre gli altri si chiamarono solo “della Tolfa”. Non corrisponde al vero, dunque, quando si dice, in un italiano un po’ stentato, che “nel 1448 (Tolfa) passò al ramo dell’antica famiglia Frangipane, che ristrutturarono (sic) il castello”[7], quando la famiglia era già presente da molto tempo come “Signori di Tolfa”. Probabilmente si trattò di una conferma pontificia.

Non escludendo un’origine comune dei due rami, da quale stirpe discendevano i “della Tolfa Vecchia”? La lapide di Bartolomea (anno 1329), raffigurante il loro stemma prima della nobilitazione nel Regno di Napoli presenta delle “fasce ondate”. Una famiglia che porta quell’insegna è quella dei Pitti fiorentini, ma queste nel nostro stemma sono onde più appuntite. Il mistero rimane.

 

Claudio De Dominicis

 

 

Lapide di Bartolomea di Tolfa Vecchia (1329):

 

⸭ ANNO DOMINI MCCCXXVIIII MENSE SEPTEMBER DIE XV OBIIT… DOMINA BARTOLOMEA FILIA QUONDAM IACOBI DOMINI… -A VETULA DE URBE UXOR ILLUSTRISSIMI VIRI QUICTUCII DE BISEN…

 

(Traduzione)

 

⸭ ANNO DEL SIGNORE 1329, MESE SETTEMBRE, GIORNO 15, MORI’… D. BARTOLOMEA, FIGLIA DEL FU GIACOMO SIGNORE… -A VECCHIA, DI ROMA, MOGLIE DELL’ILLUSTRISSIMO GUITTUCCIO DA BISEN…

 

 

“ARTICOLO DEL 1993”

 

DI TOLFA

 

In apertura del n° 21 del “Bollettino della Società Tarquiniense d’Arte e Storia”, si dava notizia del ritrovamento di una lastra tombale, con due stemmi a rilievo, avvenuto durante il restauro del palazzo della Commenda dei Cavalieri di Malta, a Tarquinia[8].

La scoperta costituisce un tassello molto importante non solo riguardo alla storia medievale di Corneto, ma ancora di più per i suoi risvolti araldici e genealogici.

Il personaggio cui la lapide si riferisce –Bartolomea figlia del fu Giacomo Signore di Tolfa Vecchia[9] e moglie di Guittuccio di Bisenzo– come anche quello di suo padre, non erano finora conosciuti dalle fonti storiche, a differenza del marito. Lo stesso dicasi per lo stemma dei “della Tolfa” in quel periodo.

È, dunque, questa l’occasione per dare uno sguardo alla storia delle due famiglie, correggendo anche qualche imprecisione più volte ripetuta da storici locali.

 

La famiglia dei “della Tolfa” (ovvero “Tolfi”, “Tulfa”, “Tulphi”) prese nome dal castello in provincia di Viterbo, oggi Comune autonomo, che venne anche chiamato Tolfa Vecchia. Tale castello apparteneva, nel 1140, a Nicola dell’Anguillara[10]. Un suo erede (?), il conte Guido, ne venne spossessato, nel 1202, dal conte Ugolino[11], di famiglia non ben precisata[12] ma che, da allora in poi, venne indicata come dei Signori di Tolfa.

Pochi anni dopo, nel 1211, i Viterbesi occuparono il castello e costrinsero gli abitanti a giurare loro fedeltà. Per ritorsione, Gezio della Tolfa ed i suoi congiunti assediarono Respampani, posseduto da quella gente[13]. Ciò dovrebbe essere bastato per rimettere le cose al loro posto e a far nascere anche una certa amicizia con Viterbo. Infatti, nel 1291, Rainone della Tolfa fu tra i firmatari della pace tra quella città ed il Senato romano[14].

Subito dopo, nel 1293, Odo di Guitto di Tolfa Vecchia fece atto di sudditanza al Comune di Corneto[15]. Si noti che, in tale atto, risulta per la prima volta l’indicazione di “Signore di Tolfa Vecchia”. Da ciò deduciamo la costruzione della “Nuova” o, per lo meno, la divisione della famiglia in due rami, da allora rispettivamente denominati di “Tolfa Vecchia” e di “Tolfa Nuova”.

Anche Francesco di Ruggero e Pietro di Tebaldo, Signori di Tolfa Nuova, circa questo periodo, si sottomisero a Corneto[16]. Negli anni seguenti troviamo periodici giuramenti di fedeltà a quel Comune[17]. Sembra che i Signori di Tolfa Nuova assumessero il cognome Baldi, quali discendenti di Tebaldo[18].

I due rami si divisero le proprietà: ai Signori di Tolfa Vecchia andò Sant’Arcangelo; a quelli di Tolfa Nuova, Castel Marinello, Monte Monastero, Civitella e Rota. Come è spesso accaduto nella storia medievale, due rami della medesima famiglia si schierarono su posizioni politiche diverse, una guelfa e l’altra ghibellina. Così fu anche per i “della Tolfa”: quelli di Tolfa Vecchia furono dalla parte filopapale degli Anguillara, quelli di Tolfa Nuova furono per i di Vico ghibellini.

Il primo atto del dissidio tra la parentela venne a cavallo degli anni 1299-1300. I Signori di Tolfa Vecchia occuparono Monte Monastero che, come si è detto, apparteneva a quelli di Tolfa Nuova. Pertanto intervenne Corneto e per esso il Podestà della città, Manfredi di Vico, che assediò il castello. Gli occupanti dissero di tenerlo a nome del Conte dell’Anguillara, al quale lo avevano ceduto, ma Manfredi lo riprese ed i Cornetani lo confermarono agli stessi feudatari di prima[19].

Le lotte di parte proseguirono ed i Signori di Tolfa Vecchia ebbero una spedizione contro di loro da parte del Comune di Roma, nel 1301[20], e il loro castello venne occupato, certo temporaneamente, dal figlio di Manfredi di Vico, Prefetto dell’Urbe, nel 1322[21].

È a quel periodo (anno 1329) che risale la lapide funeraria di Bartolomea di Giacomo di Tolfa Vecchia, definita “romana”, ritrovata a Tarquinia e che è stata origine di questo articolo.

Certamente alcuni lievi contrasti con gli Anguillara vennero composti dai Signori di Tolfa Vecchia nel 1331[22] a tal punto che, nel 1363, Puccio di Bove di Tolfa Vecchia nominò suo esecutore testamentario proprio il Conte Giovanni dell’Anguillara[23]. Questo Puccio aveva sposato una Agnese, forse della famiglia Farnese[24].

Unico momento di accordo tra i due rami fu nel 1341, quando si ribellarono al Papa avignonese Benedetto XII. Mentre i Signori di Tolfa Vecchia tornarono subito all’obbedienza, su consiglio di Nicola da Perugia, Podestà di Viterbo, gli altri furono attaccati dalle truppe pontificie del vessillifero Guido Orsini che, preso prigioniero Nerio di Baldo di Tolfa Nuova, lo consegnò al Rettore del patrimonio[25].

I Signori di Tolfa Nuova si sottomisero completamente ai di Vico, consegnando loro il feudo: un loro membro era tra i cento nobili del Patrimonio che nel 1347 accompagnarono a Roma Giovanni di Vico[26]. Lo stesso Giovanni che nel 1354 prestò giuramento di fedeltà al Rettore del Patrimonio per i suoi feudi, tra i quali proprio quello di Tolfa Nuova[27]. Abbiamo notizia di arbitrati tra Paradiso di Nereo di Tolfa Nuova con Nuccio di Cecco e suo figlio Ventura, nel 1362[28].

Sono queste le ultime testimonianze rintracciate del ramo di Tolfa Nuova; sempre più spesso l’altro ramo viene indicato solo come di “Tolfa”. Il castello di Tolfa Nuova passò dunque nelle mani dei di Vico; poi in quelle di Francesco Orsini, insignitone da Eugenio IV nel 1435[29]; di Everso dell’Anguillara, impossessatosene nel 1460[30]; della Camera Apostolica, sotto Paolo II, nel 1464; e finalmente di Pier Luigi Farnese, nel 1534[31].

Con l’inizio del secolo XV abbiamo notizia di membri della famiglia stabilitisi a Roma. In particolare di Egidia, sorella di Nerio e moglie di Giovanni Tomasi, milite di S. Eustachio che testò nel 1426 e 1429 (con un lascito anche a un Nicola della Tolfa, dell’Ordine dei Predicatori), che morì nel 1452 venendo sepolta nella chiesa di S. Marcello[32].

I fratelli Ludovico e Pietro della Tolfa, ormai sudditi pontifici a tutti gli effetti, furono “scudieri onorari e commensali continui” di Papa Pio II (1458-1464) e a loro si deve la costruzione della cerchia di mura attorno al borgo sorto sotto il loro castello[33].

Nel 1461 avvenne il fatto straordinario che cambiò le sorti di questa famiglia, dello Stato Pontificio e di tutto il mondo occidentale. Proprio nel territorio circostante il castello di Tolfa Vecchia, tal Giovanni da Castro scoprì i giacimenti minerari di allume, che saranno fonte di enormi ricchezze e dell’interesse di tutti[34]. Le tre figlie di Ludovico della Tolfa sposarono tre figli di Giovanni di Castro il quale stipulò con loro il primo contratto per lo sfruttamento dei giacimenti[35].

Il Papa fece subito presenti i suoi diritti sovrani sui giacimenti minerari nominando Pietro della Tolfa a custode delle allumiere e concedendo a Ludovico, il primogenito, parte dei profitti dell’impresa[36]. Paolo II, appena salito al Soglio, nel 1464, fece una regalìa ai due fratelli in occasione del matrimonio di una figlia di Pietro[37]. L’anno successivo, Ludovico sposò (certo in seconde nozze) Agnese, figlia del potente Orso Orsini, segnando così l’ascesa sociale della famiglia[38].

Tale matrimonio si rivelò provvidenziale subito dopo, nel 1466, quando il Papa abbandonò la linea morbida e desiderò assoggettare direttamente il castello. Tentò prima fomentando una sollevazione popolare contro i Signori, fallita sul nascere; poi facendo assediare la rocca ed occupando il borgo. I della Tolfa si rivolsero all’Orsini, occupato in Romagna per la guerra, che abbandonò immediatamente il campo per correre in loro soccorso. Le truppe pontificie, appena saputo dello spostamento del comandante e, prima ancora che questo arrivasse, si ritirarono[39].

Così venne fatta temporaneamente la pace in attesa di una soluzione radicale che arrivò nel 1469. In quell’anno, con l’intervento di Napoleone Orsini, capitano generale delle truppe pontificie, la Camera Apostolica acquistò regolarmente il feudo per ben 17.300 ducati[40] ed il Papa Paolo II regalò anche a Ludovico un cavallo nero[41].

A questo punto i della Tolfa abbandonarono la loro terra e lo stesso Stato pontificio nel quale sarebbe stato difficile rimanere. Seguirono il loro parente Orsini nel Regno di Napoli, dove quello era molto potente ed ormai, forti di tale parentela e ricchi, vi si stabilirono acquistando il feudo di Serino (oggi in provincia di Avellino), tolto a forza dal Re a Camillo della Marra[42].

Ludovico della Tolfa lo troviamo ancora solo nel 1471 quando ottenne dal Papa di poter procedere contro alcuni suoi debitori nel Patrimonio e con essi chiudere definitivamente i conti col passato[43].

Col l’aiuto degli Orsini, la famiglia si integrò completamente nella nobiltà feudale partenopea: il figlio di Ludovico, Giovanni Battista, sposò Francesca Carafa[44]. Si imparentarono inoltre coi Carafa de Spina Conti di Policastro (Vittoria della Tolfa era cugina ex sorore di Papa Paolo IV), coi Vulcano Baroni di Melito, con gli Spinello, coi Capece Galeota, con gli Orsini Conti di Manoppello e Marchesi di Guardia, coi de Loffredo, coi de Guevara Duchi di Bovino, coi Caracciolo Principi di Avellino, coi Carafa Marchesi di San Lucido, coi de Sangro Principi di Sansevero, coi Pappacoda Marchesi di Capurso, coi Carbone Marchesi di Paduli, coi Caracciolo Principi di San Bono (nei quali si estinse il loro ramo principale alla fine del XVI secolo) e con gli Orsini Duchi di Gravina (Giovanna della Tolfa fu madre di Papa Benedetto XIII) estinguendosi nell’anno 1700, con la morte della stessa Giovanna.

Esula dai nostri interessi seguire le vicissitudini in quella terra, solo dobbiamo segnalare la nascita cinquecentesca di favole genealogiche che vedono i della Tolfa discendere dai Frangipane, tanto che spesso si fecero chiamare Frangipane della Tolfa[45].

Il loro feudo di Serino venne prima innalzato al grado di baronato e poi a quello di contea verso il 1530. Possedettero anche il ducato di Grumo ed i feudi di Santo Stefano, Montebrandoni, Ponte, Monterone, Castelchiodato, Buonalbergo e Vallata.

A Roma, per le sue opere di beneficenza è rimasta famosa Vittoria della Tolfa, moglie di Camillo-Pardo Orsini, Conte di Manoppello e Marchese della Guardia, sposata prima del 1545[46]. Rimasta vedova, nel 1553[47] tentò di fondare un monastero di clarisse in alcune sue case “alla guglia di S. Macuto”. Il tentativo fallì e, su consiglio del congiunto Papa Paolo IV, donò le proprietà immobiliari ai neo-costituiti Gesuiti che ne fecero la base per la loro prima chiesa di S. Ignazio e del Collegio Romano nel 1561[48].

La stessa Vittoria fece altri lasciti testamentari[49] al convento di S. Francesco a Ripa verso il 1579[50], al convento carmelitano di S. Maria in Traspontina (nella cui chiesa eresse la cappella dell’Immacolata o del Carmine) nel 1581[51], al collegio dei Gesuiti nel 1583[52], all’ospedale di S. Spirito (al quale lasciò una vigna con palazzo sul Pincio, dove poi sorgerà villa Ludovisi) nel 1588[53] ed all’ospedale di S. Giacomo nel 1605.[54]

 

 

DI BISENZO

 

La famiglia di Bisenzo (o “Bisenti”, “Bisenzi”, “Bisenzio”) prese il nome dal castello sull’isola Bisentina (oggi nel comune di Capodimonte, in provincia di Viterbo)[55], della quale furono Signori sembra a partire dal 981 per nomina dell’Imperatore Ottone II di passaggio in Italia[56]. C’è chi dice che costituivano un ramo degli Aldobrandeschi[57].

A partire dal 1080, per più di un secolo, signoreggiarono sulle città di Tuscania (poi Toscanella ed oggi di nuovo Tuscania)[58]. Nel 1188 i Viterbesi cacciarono Ildebrando di Bisenzo dal suo castello ma poi la famiglia lo dovette rioccupare se, nel 1220, Guido di Bisenzo lo sottomise alla città di Orvieto[59].

Nel 1245, col favore dell’Imperatore Federico II, tornarono a dominare Toscanella e la tennero fino al 1279, quando venne loro tolta da Orso Orsini, andando a far parte delle proprietà di quest’ultimo[60]. È in questo periodo che abbiamo notizia di un Guitto, poi detto Guittone, di Bisenzo (morto avanti il 1262)[61] e dei figli Giacomo (Jacobo), Nicola, Tancredi e Giacoma[62]. I figli maschi sottomisero a Orvieto i loro castelli di Bisenzo e Capodimonte[63].

Nel 1261 Papa Urbano IV, a seguito dell’omicidio di Guiscardo di Pietrasanta, governatore della provincia, perpetrato da Giacomo di Guittone di Bisenzo, gli tolse il castello di Bisenzo (che fece demolire) e l’isola Martana[64]. A quel punto, nel 1262, Giacomo si trasferì a Montebello nel territorio di Corneto, al cui vicario e console, chiese di poter riedificare quel castello (che era stato distrutto nel 1253), promettendo in cambio varie cose e sottomettendogli il giuramento della cittadinanza cornetana[65].

Giacomo, assieme al fratello Tancredi, nel 1280 ottenne ancora da Orvieto la custodia dei castelli di Bisenzo e Capodimonte[66]. Lo stesso nel 1294, assieme alla moglie Romana ed ai figli Guittuccio e Dragone, ebbe un contrasto col comune di Corneto per i confini delle tenute di Montebello, Monteleone e Montevalerio[67].

Di Tancredi, fratello di Giacomo, sappiamo che nel 1262, assieme a Viterbesi, Toscanesi e Cornetani, saccheggiò Bolsena ed i dintorni di Orvieto, fedeli al Papa[68]. Lasciò tutti i suoi diritti sull’eredità paterna alla sorella Giacoma ed al nipote Guittuccio di Giacomo[69]. Ebbe un figlio, Guido, Signore di Marta, castello che fece lui stesso incendiare nel 1261 per non lasciarlo prendere dai di Vico[70], e del quale si ha l’ultima notizia nel 1269[71].

L’altro figlio maschio di Guittone, Nicola, era Signore di Pianzano nel 1263, quando lo sottopose alla città di Tuscania[72]. Ebbe un figlio di nome Galasso.

Nella stessa epoca troviamo un Nicola di Ranuccio di Bisenzo, Signore di Ancarano, che ne 1263 sottomise anch’egli il suo castello a Tuscania[73].

Guittuccio (o Guiduccio, Guittuzzo) di Bisenzo, figlio di Giacomo, Signore di Montebello, per questo castello e per Contignano, Leona e Castel Marano, confermò la “soggezione antica” a Tuscania[74]. Di lui abbiamo notizie ancora nel 1300[75] e nel 1321, quando ha una lite per proprietà con Vanni e Cataluccio, figli del cugino Galasso e Signori di Capodimonte, terminata nel 1323[76]. Era lui il Guittuccio marito di Bartolomea di Tolfa Vecchia della lapide cornetana del 1329. Tra i suoi figli, ebbe un Giovanni.

Il cugino di Guittuccio, Galasso di Nicola di Bisenzo, Barone di Pianzano, tentò di esentarsi dall’ubbidienza a Tuscania nel 1300[77]. Come si è detto, suoi figli furono Vanni e Cataluccio.

Sembra che nel secolo XIII i Bisenzo, benché ghibellini, fossero contro i di Vico[78], invece nel 1311 li troviamo a chiedere aiuto proprio a quella famiglia, quando furono attaccati dai Farnese; quelli inviarono in soccorso alcuni militari di Corneto[79]. L’adesione ai di Vico è dimostrata ancora nel 1347, quando un Bisenzo fu tra i cento nobili del Patrimonio che accompagnarono a Roma Giovanni di Vico[80].

Alcuni figli di Guittuccio di Bisenzo, nel 1313 o poco dopo, vennero fatti prigionieri da Poncello Orsini, che li condusse ad Orvieto o Bolsena, ove li fece uccidere[81].

L’altro figlio, Giovanni, era consignore di Tuscania nel 1336 e Signore di Pianzano nel 1338[82]. Per la sua attività antipapale, nel 1341 gli vennero tolti Pianzano ed i suoi diritti sulla metà di Montebello, che entrarono a far parte dei beni della Chiesa[83]. Nel tentativo di ottenere il perdono dei Guelfi, fece sposare la figlia Caterina con Ranuccio di Cola “de Celgiolo” Farnese[84]. Altro figlio fu Giacomo.

Questo Giacomo di Bisenzo tentò, però inutilmente, di riavere dalla Camera Apostolica i castelli di Pianzano e Montebello, con una causa tenuta verso la fine del pontificato di Urbano V (1362-1370)[85].

Anche il castello di Bisenzo venne tolto ad un Catulano di Guelfo di Nicolò Orsini che lo consegnò alla Camera Apostolica[86]; dovette però tornare nelle loro mani.

La famiglia di Bisenzo trasferì la dimora a Orvieto e, nel pontificato di Paolo III (1534-1549), i due fratelli Ascanio e Fabrizio cedettero i loro diritti sul castello avito a Pier Luigi Farnese, parte in dono e parte per vendita[87].

Si estinsero con Guido che, nel pontificato di Gregorio XVI (1831-1846), fu a Roma presidente del rione Borgo[88].

 

Claudio De Dominicis

 

 

L’ARMA

 

Alcune considerazioni di tipo araldico consentono di precisare e confermare quanto esposto nella parte genealogica di queste note.

Come è evidente sulla lapide cornetana sono presenti gli stemmi di due famiglie. Secondo la descrizione tecnica, detta blasonatura, vengono così definiti: Bisenzo (scudo di sinistra): Partito d’oro e d’azzurro alla pergola troncata dell’uno all’altro. Tolfa (scudo di destra): di… a cinque fasce ondate di… Gli smalti (colori), non presenti nella riproduzione lapidaria, ove è stato possibile, sono una nostra integrazione, altrimenti sono stati sostituiti, come di prassi, dai punti.

Può tornare utile qualche puntualizzazione araldica premettendo che quella descrittiva è solo una delle funzioni dell’araldica stessa, forse la più limitativa e difficilmente comprensibile a tutti. Essa tuttavia persegue l’obiettivo di fermare visivamente la memoria dello stemma. Descrivere un’arma in modo univoco affinché, anche senza una raffigurazione, sia possibile sapere con precisione come è fatta e quali elementi la compongono, può a volte costituire l’unica traccia della sua esistenza. La scienza che si occupa di questo (l’araldica) potrebbe essere ridotta a mera tecnica di riconoscimento e descrizione delle armi. Più proficuo per un gran numero di ricercatori è comprendere l’apporto scientifico, le implicazioni di carattere storico che questa scienza ausiliaria della storia può fornire. Dare storicamente ragione degli elementi di un’arma relativamente alle figure, al tipo di scudo ed ai vari ornamenti esterni ad esso, registrare le varianti, qualora nel corso del tempo ve ne siano state, significa spesso ripercorrere le vicende della storia di una famiglia, di un potentato o di un comune.

Nell’arma, infatti, è sinteticamente espressa l’immagine che una famiglia: un singolo personaggio od un regno vogliono figurare e divulgare in un determinato momento della propria storia, scegliendo tra le vicende presenti e passate ciò che reputano degno di memoria. Ogni elemento di un’arma viene così a richiamare origini, parentele, eredità, feudi, dignità, fornendo informazioni a volte indispensabili per lo storico, lo storico dell’arte, il genealogista ecc.

Dietro la realtà apparente va ricercato un significato in relazione alla mentalità e ai desideri di chi l’alzava. In questo senso le mutazioni che lo stemma subisce nel corso del tempo o il permanere delle medesime forme e figure sono da interpretare come espressioni di mutamenti ideologici e politici.

Gli elementi necessari alla formazione di uno stemma sono tre: lo scudo, la figura, lo smalto. La forma degli scudi della nostra lapide viene detta triangolare o alla francese, ne conferma l’epoca di esecuzione.

Senza leggere il contenuto dell’iscrizione, sembrerebbe trattarsi di documento concepito in occasione di una alleanza matrimoniale tra i Bisenzo[89] e i della Tolfa. La lapide non fu però scolpita in occasione del matrimonio tra Guittuccio e Bartolomea, ma a ricordo di quest’ultima nella sua morte.

Analizziamo le figure presenti nei singoli scudi. Per i Bisenzo abbiamo la “pergola”; si tratta di una figura araldica detta “pezza onorevole” assai rara nell’araldica italiana. Essa è frequente nelle armi gentilizie e civili della Francia[90] dove molte famiglie o città il cui nome inizia per la lettera Y la acquisiscono nel proprio scudo alla stregua di una vera e propria arma parlante. Circa la sua origine, alcuni richiamano oggetti presenti nell’ambiente torneario, cioè barriere da torneo, o speroni dei cavalieri o anche supporto per la balestra a cric. Altri osservano la somiglianza con il pallio arcivescovile. Questa ultima tesi è accolta dal più autorevole araldista della passata generazione, il di Crollalanza che ne osserva la presenza in molte armi dei prelati inglesi. Questa figura per alcuni araldisti potrebbe aver avuto origine dal pallio usato in primis dagli imperatori bizantini[91] ed in seguito entrato nell’uso ecclesiale per i gradi alti della gerarchia.  La pergola richiama nella forma quell’indumento: una famiglia che adotta proprio la pergola per rappresentarsi potrebbe collegare le proprie origini a Bisanzio o ad un toponimo locale che lo ricorda, oppure affermare l’alta dignità cui si sente chiamata. I Bisenzo assumono la pergola nella forma troncata, cioè con i tre bracci scissi nel centro[92], inserendola con una bicromia di grande effetto in uno scudo partito dagli stessi smalti. Il risultato è di estrema euritmica eleganza.

Nello scudo dei della Tolfa è presente la fascia, anch’essa figura araldica che si definisce “pezza onorevole”. Le fasce ondate in particolare, secondo alcuni araldisti tra cui il Ginanni[93], sono alzate per lo più da famiglie di parte guelfa. La lapide cornetana offre un raro esempio dello stemma dei della Tolfa prima della loro ascesa sociale. Di esso non è stato rintracciato alcun esempio nella cittadina di Tolfa, almeno nella parte esterna degli edifici più antichi. Nei maggiori repertori di araldica l’arma dei della Tolfa viene citata nella forma che ebbe dopo il trasferimento della famiglia nel napoletano, cioè d’azzurro alla torre d’argento. Il mutamento dell’arma è contemporaneo a quello della dimora ma, abbandonando l’antica figura (cioè la fascia), viene mantenuto nella nuova insegna il ricordo delle proprie origini. Infatti la torre, assunta nel nuovo stemma, era presente nelle armi di famiglie di antica e grande nobiltà. Ed i della Tolfa non rinunciano a sottolinearlo: il nuovo stemma si pone, in rapporto all’antico, non rompendo totalmente il legame araldico proprio nei contenuti (torre) e probabilmente anche negli smalti. Di essi non c’è traccia sulla lapide cornetana: l’uso di indicare i colori con particolari tratteggi anche nelle esecuzioni lapidarie è assai più tardo. In questo caso siamo portati a pensare che fossero l’azzurro e l’argento. La continuità sembra essere sottolineata anche dall’adozione dei medesimi smalti o colori dell’arma antica: l’azzurro e l’argento. Un bell’esempio romano della nuova arma dei della Tolfa compare sulla pietra a ricordo dei lasciti di Vittoria della Tolfa Orsini nella sacrestia di S. Ignazio; Vittoria, si è visto nella parte genealogica di queste note[94], apparteneva alla prima generazione nata dopo il trasferimento della sua famiglia. Il fatto che ella usi già lo stemma con la torre ci conforta nella tesi dell’immediato cambiamento che esso subì senza frapporre passaggi figurativi intermedi e periodi in cui venne utilizzato ancora il vecchio stemma.

 

Giovanna Arcangeli

 

[1] Lapide di Bartolomea della Tolfa di Bisenzio. Appunti genealogici e araldici sulle due famiglie, in “Bollettino dell’anno 1993”, Tarquinia (Società Tarquiniense d’Arte e Storia), 1993, pp. 252-263.

[2] STRACCI Glauco, I Frangipane della Tolfa, in Miscellanea storica, bollettino n. 24, Civitavecchia (Società Storica Civitavecchiese), 2017, pp. 63-72.

https://www.academia.edu/33871191/I_Frangipane_della_Tolfa_b_s_s_c_n_24_isbn_9788898293179

[3] CONTARINI Luigi, L’antiquità, sito, chiese, corpi santi, reliquie et statue di Roma con l’origine e nobiltà di Napoli, Napoli MDLXIX.

[4] BAV, ms. Ottoboni Latini, 2550/2, pp. 289-373 – https://digi.vatlib.it/view/MSS_Ott.lat.2550.pt.2 (imm. 165r-207r).

[5] BAV, ms. Ottoboni Latini, 2553/4, pp. 430-434 – https://digi.vatlib.it/view/MSS_Ott.lat.2553.pt.4 (imm. 163v-165v).

[6] Vedi più avanti.

[7] https://civitavecchia.portmobility.it/it/la-rocca-dei-frangipane-tolfa

[8] M.L.P. e B.B., articolo privo di titolo, in: “Bollettino” della S.T.A.S. n. 21 (1992), pp. 7-8.

[9] La lettura data nel suddetto articolo non sviluppava il nome di Tolfa, ma era facilmente intuibile.

[10] SORA Vittorina, I conti di Anguillara, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, XXX (1907), p. 101, nota 21.

[11] POLIDORI Muzio, Croniche di Corneto, Società Tarquiniense d’Arte e Storia, 1977, p. 170.

[12] C’è chi parla di una casa Nicolidi (POLIDORI, Croniche di Corneto, p. 170), ma credo si tratti semplicemente di figli di un Nicola.

[13] POLIDORI, Croniche di Corneto, pp. 171-172. Vedi anche: ZIPPEL Giuseppe, L’allume di Tolfa e il suo commercio, Società Romana di Storia Patria, 1907, p. 10, nota 1.

[14] DUPRÈ THESEIDER Eugenio, Roma dal Comune di popolo alla Signoria pontificia, 1252-1377, L. Cappelli, Bologna, 1952, p. 268.

[15] POLIDORI, Croniche di Corneto, p. 181. Vedi anche: ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 7, nota 4.

[16] VALESIO Ludovico, FALGARI Camillo, Memorie istoriche della città di Corneto, STEG, Tarquinia, 1993, p. 35. Vedi anche: POLIDORI, Croniche di Corneto, p. 159. Cfr. anche ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 7, nota 4, che riferisce di una autorizzazione del 1295 a Raniero di Tebaldo di Tolfa Nuova per la vendita di alcuni suoi diritti.

[17] Abbiamo notizie di giuramenti nel 1299, 1300 e 1347.

[18] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 9.

[19] VALESIO, FALGARI, Memorie istoriche…, cit., pp. 35-36.

[20] DUPRÈ THESEIDER, Roma dal Comune di popolo, p. 359.

[21] BOCK Friedrich, Roma al tempo di Roberto d’Angiò, p. 204.

[22] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 9.

[23] Idem, p. 109; Sora, I Conti di Anguillara…, cit., p. 101 nota 4.

[24] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 109 nota 4.

[25] ANTONELLI Mercurio, Nuove ricerche per la storia del Patrimonio dal MCCCXXI al MCCCXLI, Archivio della Deputazione Romana di Storia Patria, LVIII (1935), p. 143. Vedi anche: ANTONELLI Mercurio, Vicende della dominazione pontificia nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia…, R. Società Romana di Storia Patria, 1903, p. 301.

[26] DUPRÈ THESEIDER, Roma dal comune di popolo, p. 604.

[27] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 8.

[28] JACOVACCI Domenico, Repertorii di famiglie, n. 2553 parte IV, p. 430; atti del notaio Cecco di Giacomo Paulini.

[29] ZIPPEL, L’allume di Tolfa, cit., pp. 8, 8 nota 3, 9, 28 nota 1. Non credo che il castello fu mai del Vescovo Bartolomeo Vitelleschi, come afferma Polidori, anche se riporta di una sentenza del 1454 a favore di questo per il diretto dominio sul castello (POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., p. 230).

[30] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 9.

[31] Idem, pp. 9 e 30.

[32] JACOVACCI Domenico, Repertorii di famiglie, pp. 431-432.

[33] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., pp. 26, 26 nota 1, 27 nota 2,

[34] POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., p. 259; ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., pp. 9-10.

[35] POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., p. 261; ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 26 nota 2. Quest’ultimo autore dice di non essere però riuscito a rintracciare il contratto. Credo si possa trovare tra gli accordi matrimoniali dei loro figli.

[36] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 27 note 2-3.

[37] Idem, p. 27 nota 5.

[38] LITTA Pompeo, Famiglie celebri italiane, Orsini, tav. 15. Vedi anche: ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., pp. 28 e 189.

[39] POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., p. 260. Vedi anche: ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 29 nota 1.

[40] POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., pp. 260-261. Vedi anche: ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 29 nota 1.

[41] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 29 nota 2.

[42] POLIDORI, Croniche di Corneto…, cit., p. 261. Cfr. anche: RICCA Erasmo, La nobiltà del Regno delle Due Sicilie, vol. IV, Napoli, 1869, pp. 427, 433 e ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 28 note 2 e 29.

[43] ZIPPEL, L’allume di Tolfa…, cit., p. 29 nota 2.

[44] RICCA, La nobiltà del Regno, vol. IV, p. 433. È a quest’opera che si può far riferimento per maggiori particolari genealogici.

[45] BORRELLI Carlo, Vindex Neapolitanae Nobilitatis, Napoli, 1653, vol. I, p. 170. Da tali falsità si è arrivati oggi a chiamare “rocca dei Frangipane” quella del centro comunale di Tolfa. E via di questo passo a dire che quel castello venne venduto dai Frangipane! Cerchiamo invece, per quanto possibile, di dare alla Storia il merito di essere stata una soltanto e sfrondiamola dalle fantasie di così “eccelsi storiografi” prezzolati.

[46] JACOVACCI Domenico, Repertorii di famiglie, vol. 2553 parte IV, p. 432; atti del notaio Teodoro de Gualteronibus.

[47] FORCELLA, Iscrizioni nelle chiese, vol. I, p. 170, nn. 648-649; il marito venne sepolto in S. Maria in Aracoeli.

[48] NEGRO Angela, Rione II Trevi, parte II, fasc, II, Guide rionali di Roma, Palombi, Roma, 1985, p. 100 – PIETRANGELI, Rione IX Pigna, parte III, pp. 18, 37.

[49] JACOVACCI Domenico, Repertorii di famiglie, vol. 2553, parte IV, pp. 433-434; atti del notaio Prospero Campana.

[50] PIETRANGELI, Rione IX Pigna, parte IV, p. 132.

[51] GIGLI Laura, Rione XIV Borgo, parte I, Guide rionali di Roma, Palombi, Roma, 1990, p. 104.

[52] FORCELLA Vincenzo, Iscrizioni nelle chiese e d’altri edificii di Roma, vol. X, 1877, p. 102, n. 179.

[53] FORCELLA, Iscrizioni nelle chiese, vol. VI, 1875, p. 356, n. 1111 – Idem, vol. VI, p. 400, n. 1227. Vedi anche: BARBERINI Giulia, Rione XVI Ludovisi, pp. 20, 22 (dice che il lascito in questione venne fatto al convento della Traspontina).

[54] FORCELLA, Iscrizioni nelle chiese, vol. IX, 1877, p. 134, n. 265.

[55] Da segnalare l’esistenza di un Comune di Bisenti in provincia di Teramo.

[56] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, 1861, p. 32.

[57] Idem, vol. 78, 1856, p. 287; vol. 102, p. 32.

[58] Idem, vol. 78, p. 287.

[59] Idem, vol. 102, p. 32.

[60] Idem, vol. 78, p. 289.

[61] SUPINO Paola (cura), Margarita Cornetana, Regesto dei documenti, Roma, 1969, pp. 61 n. 17, 197-198 nn. 384-386.

[62] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 78, p. 289; vol. 102, p. 29. Vedi anche: CORTESELLI Mario, PARDI Antonio, I personaggi delle memorie istoriche della città di Corneto, p. 222.

[63] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 33.

[64] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 96, p. 69. Cfr. anche: MORGHEN Raffaello, Il cardinale Matteo Rosso Orsini e la politica papale nel secolo XIII, 1923, p. 281 e CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, pp. 222, 241.

[65] Margarita Cornetana, pp. 297-298, nn. 384-386. Cfr. anche: VALESIO, FALGARI, Memorie istoriche…, cit., p. 159.

[66] CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, p. 222.

[67] Margarita Cornetana, pp. 241-242, nn. 319-320.

[68] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 19.

[69] CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, p. 222.

[70] Idem.

[71] VALESIO, FALGARI, Memorie istoriche…, cit, p. 32.

[72] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 78, p. 289; vol. 102, p. 124.

[73] Idem, vol. 78, p. 289.

[74] Idem.

[75] Idem, vol. 102, p. 83.

[76] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 33. Vedi anche: ANTONELLI Mercurio, Di Angelo Tignosi e di una sua relazione al pontefice in Avignone, 1930, pp. 3-4. e ANTONELLI, Vicende della dominazione pontificia, p. 250. Da Cataluccio di Galasso derivarono i Catalucci. Del fratello Vanni si ha ancora notizia nel 1330 (ANTONELLI, Vicende della dominazione pontificia, p. 262, nota 3).

[77] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 124

[78] CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, pp. 222, 241.

[79] VALESIO, FALGARI, Memorie istoriche…, cit., p. 38.

[80] DUPRÈ THESEIDER, Roma dal comune di popolo, p. 604. Cfr. anche: CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, p. 241.

[81] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 34 (dice sotto il pontificato di Giovanni XXII, 1316-1334, e che la giustizia si svolse in Orvieto) e CORTESELLI, PARDI, I personaggi delle memorie, p. 241 (dice nel 1313 e che si svolse in Bolsena).

[82] ANTONELLI, Vicende della dominazione pontificia, pp. 294, 297.

[83] ANTONELLI, Nuove ricerche, p. 129.

[84] Idem, pp. 129, 148 app. I.

[85] Idem, p. 129. e ANTONELLI, La dimora estiva, p. 160.

[86] MORONI Gaetano, Dizionario di erudizione, vol. 102, p. 34.

[87] Idem, vol. 102, pp. 31-32.

[88] Idem, vol. 102, p. 31.

[89] Per notizie sulle vicende storiche dei Bisenzo inserite nelle lotte contro la parte guelfa ed Orvieto cfr. i numerosi riferimenti in WALEY Daniel, Orvieto medievale…, Multigrafica Roma.

[90] Cfr. DE RENESSE T., Dictionnaire des figures héraldiques, Bruxelles, 1990, vol. V, pp. 703 sgg.

[91] Per questo particolare aspetto cfr. PETRUSI A., Insegne del potere sovrano e delegato a Bisanzio e nei paesi di influenza bizantina, in Simbologia e simboli nell’alto Medio Evo, Settimane del Centro Italiano di Studi sull’alto Medio Evo (XXIII), Spoleto, 1976 vol. II pp. 569-593.

[92] Cfr. di CROLLALANZA Giambattista, Enciclopedia araldico-cavalleresca, Forni, Bologna, 1980.

[93] GINANNI M.A., L’arte del blasone dichiarata per alfabeto, Galeotti, Venezia, 1756 p. 128.

[94] Cfr. in particolare quanto detto alle note 46-54.