Sono passati cinquanta anni dalla pubblicazione, da parte del Malaise, dei due volumi (Inventaire préliminaire des documents égyptiens découverts en Italie) che intendevano coraggiosamente affrontare il tema complesso della presenza e della diffusione dei culti egizi in Italia.
È stata, inoltre, pubblicata la RICIS (Recueil des inscriptions concernant les cultes isiaques) curata dal Bricault che raccoglie più di 1700 iscrizioni isiache fra quelle già conosciute e quelle di nuova acquisizione, opera che si va ad aggiungere all’Atlas de la diffusion des cultes isiaques, dato alle stampe alcuni anni prima dallo stesso autore.
Questi lavori dimostrano che la ricerca è ben lontana dall’essere conclusa e lasciano sperare che ulteriori testimonianze potranno emergere nel futuro, o come frutto di nuove scoperte archeologiche, o come recupero di una memoria ora sepolta all’interno dei depositi delle raccolte statali, civiche o private.
Deve essere sottolineato che al momento la documentazione complessiva resta, per il territorio preso in esame, abbastanza esigua e che le conclusioni scaturite dalla sua analisi devono essere considerate come molto parziali e soggette a modifica.
Da questo punto di vista, almeno a nostro parere, risulta fondamentale per lo studio e la comprensione della diffusione dei culti egizi, la verifica dei documenti noti e l’indagine dei contesti di provenienza delle testimonianze. Le opere sopra citate, infatti, per il loro carattere generale e per la vastità dei dati raccolti hanno, a fronte di molti meriti, il difetto di registrare i ritrovamenti basandosi spesso su una documentazione scarna o poco precisa.
Per il territorio in oggetto va, inoltre, considerato il fattore negativo rappresentato dall’opera di spoliazione, effettuata in particolare durante il ‘700 e l’’800, che ha portato molti reperti sul mercato antiquario romano o a confluire, attraverso ritrovamenti o donazioni, direttamente all’interno di collezioni private. Alcuni di questi oggetti sono, forse, oggi considerati come provenienti da Roma o più genericamente dal Lazio e rimane un caso fortunato quello della statua di naoforo (fig. 1) descritta dal Winkelmann che sappiamo provenire dal territorio di Rignano Flaminio ed ora al Museo del Louvre.
L’Etruria meridionale, che può essere identificata territorialmente con la provincia di Viterbo e con la parte settentrionale della provincia di Roma, e la media valle del Tevere si presentano come due aree culturalmente diverse fra loro ma, sin dall’età antica, fortemente correlate. Il corso d’acqua ha, infatti, costituito sempre una sorta di cerniera fra le popolazioni etrusca e falisca e quelle del territorio sabino ed umbro. In età repubblicana il Tevere continuò ad assolvere questa importante funzione a cui si aggiunse quella di via di collegamento con Roma. Una serie di approdi permetteva il rapido raggiungimento dell’Urbe allo scopo principale di commercializzare manufatti e prodotti agricoli derivati da un capillare sfruttamento del territorio, attuato attraverso l’impianto di fattorie.
L’esame dell’area della media Valle del Tevere si presentava, quindi, di particolare interesse in quanto le vie commerciali sono state riconosciute come fondamentali per l’affermarsi ed il diffondersi dei culti egizi.
Oltre al commercio -veicolo naturale per lo scambio di merci, di tecnologie, ma anche di idee e credenze religiose- dobbiamo, però, considerare la possibile incidenza avuta nella diffusione dei culti egizi in quest’area dall’impiego di manodopera servile all’interno dei fondi agricoli. Le proprietà private, a cui si affiancarono tenute imperiali, vedevano, infatti, il largo utilizzo di schiavi ed affrancati che, a partire dal I secolo a.C., sappiamo giungere in gran numero in Italia dalle regioni orientali.
Alcuni soggetti recanti nomi teofori sono inquadrabili, appunto, nella classe degli schiavi e degli affrancati. L’elenco, se limitato alla sola media valle del Tevere ed alle località direttamente collegate ad essa, è abbastanza ristretto. Si annoverano Iulia Isias, sposa di uno schiavo imperiale, da Borghetto (CIL, XI, 3173), presso Civita Castellana, T. Flavius Isidorus da Amelia (CIL, XI, 4462) e C. Volumnius Isidorus da Spoleto (C. I. L., XI, 4939) . A questi devono essere aggiunti, fra le categorie degli ingenui e degli incerti, T. Flavius Isidorus da Terni (CIL, XI, 4209) , Arphocrates e M. Dec[u]miu[s] Apio da Forum Novum (CIL, XI, 4772; CIL, XI 1435). Per quanto riguarda il rimanente territorio dell’Etruria meridionale sono, inoltre, da segnalare una Antonia Isias da Blera (CIL, XI, 3341), C. Decimius Ammonianus Flavianus e Ammonilla da Civitavecchia (C. I. L., XI, 3552).
Appare evidente la larga prevalenza del nome della dea Isis fra questi soggetti, dato che sembra concordare con l’analisi più generale fatta dal Malaise e dal Bricault circa la preponderanza delle attestazioni del culto di Isis rispetto a quelle riferibili a Serapis od altre divinità di provenienza egizia. Difficile stabilire, però, se il nome teoforo possa indicare una devozione effettiva verso la religione isiaca, se non nel caso dell’Arphocrates da Forum Novum che pone una dedica a Isis e Serapis.
Il rapporto fra mondo rurale e diffusione della religione isiaca non si pone solo per la manodopera servile. I territori a nord di Roma, ed in particolare quelli situati nei pressi del corso del Tevere, fra i più ricercati per la loro posizione favorevole, erano spesso di proprietà di aristocratici residenti a Roma. Fra questi ultimi vanno considerati, probabilmente, alcuni personaggi che avevano avuto rapporti con l’Egitto o con la religione isiaca.
Riferibili a contesti rurali sono, infatti, i ritrovamenti di un frammento di sfinge recuperato nel territorio di Castel S. Elia, la statua di Isis da Passo Corese, ora esposta a Palazzo Altemps, e forse anche la ben nota iscrizione di Caius Metilius Saturninus con dedica a Isis e a Cibele.
Il frammento di sfinge (fig. 2), che comprende solo parte della testa, fu disegnato dal Cozza alla fine dell’800, a seguito della redazione della Carta Archeologica dell’Agro Falisco, e risulta ora scomparso. Secondo lo studioso era un oggetto scolpito nel basalto ma realizzato in età romana.
Il ritrovamento della statua di Passo Corese fu messo in qualche modo in relazione con il Portus Curensis, essendo la dea protettrice della navigazione. In realtà il luogo della scoperta corrisponde a quello di un’ampia villa che doveva essere dotata di una complessa struttura, comprendente un giardino con almeno una cappella isiaca.
La scultura (fig. 3), datata al II secolo, mostra l’immagine della dea con il capo coperto da un velo e sormontato da un ureo fiancheggiato da due serpenti ed a sua volta sovrastato da piume di struzzo. Gli attributi, l’ureo in particolare, fanno propendere per una raffigurazione di Isis Regina.
L’epigrafe isiaca di Caius Metilius Saturninus, infine, genericamente attribuita al territorio di Falerii (C. I. L., XI, 2, 7484), proviene da una località situata nei pressi della stazione di Aquaviva lungo l’antica Via Flaminia, luogo interessato dalla presenza di importanti ville. L’iscrizione è incisa su un epistilio e testimonia, quindi, della presenza sul luogo di una cappella dedicata a Isis che risulta però difficile associare ad uno specifico contesto.
Oltre ad un documento di cui rimane ignota l’esatta provenienza, ma che sappiamo recuperato sempre nella zona della Sabina, vale a dire una lucerna recante le protomi di Isis e Serapis, la diffusione del culto di Serapis lungo la media valle del Tevere è attestata dalla già citata epigrafe di Forum Novum, da un bronzo proveniente da Falerii, e da un reperto recuperato durante lo scavo del porto sul Tevere in località “Seripola”, nel territorio del comune di Orte.
Si tratta di una piccola statuetta bronzea di Serapis (fig. 4), di cui rimangono solo la testa e parte delle spalle. L’oggetto venne alla luce nel 1976 insieme ad altri bronzetti di divinità all’interno di un ambiente, probabilmente un larario, posto quasi in connessione con un piccolo impianto termale. È interessante notare che dalla stessa località proviene l’ara con dedica alla Bona Dea Isiaca (fig. 5). Il culto della Bona Dea è documentato in Etruria e lungo la valle del Tevere. La divinità reca epiteti quali Augusta o Regina, ma anche altri strettamente legati al culto locale. L’appellativo Isiaca potrebbe, quindi, suggerire la presenza sul luogo di un santuario. Ad avvalorare questa ipotesi può contribuire il ritrovamento di alcune figline ab Isis, vale a dire mattoni con bolli indicanti il luogo di fabbricazione come situato presso un tempio di Isis.
L’esistenza di un santuario isiaco può essere ugualmente postulata nel caso della nota iscrizione di Caius Iulius Severus (C. I. L., XI, 3123), sacerdote di Isis e di Cibele e magistrato municipale, santuario che deve essere situato, però, a Falerii Novi, città fondata dai romani qualche chilometro più a Ovest di Falerii (Veteres) distrutta nel 241 a.C.
Le altre attestazioni del culto di Isis che conosciamo provengono da Graviscae, una dedica del II- III secolo incisa su due lastre di bronzo, da Veio e da Caere dove la dea appare raffigurata su una lastra marmorea cavalcante il cane. In quest’ultima località sono stati recuperati anche alcuni oggetti frammentari databili, forse, al I secolo, vale a dire un manico in osso decorato con figure di Isis, Serapis e Isis – Thermutis e una testina di Arpocrate in terracotta.
Fra i reperti propriamente egizi rinvenuti nel territorio ma non ben riferibili a precisi contesti vanno ricordati il suddetto naoforo da Rignano Flaminio e la statua frammentaria di Nectanebo I dei Musei Vaticani. Del naoforo si ignora il luogo esatto di provenienza, ma si conosce che originariamente era collocato vicino la Via Flaminia, poco fuori del paese.
La statua del faraone Nectanebo I, attualmente esposta nella sala dell’emiciclo del Museo Egizio Gregoriano, fu donata nel 1838 dal Comune di Nepi al Pontefice Gregorio XVI. Secondo la tradizione locale il suo ritrovamento avvenne fortunosamente all’interno dell’abitato. Seppur vi siano valide ragioni per dubitare di ciò, non può essere negata la possibilità che la scultura possa provenire dal territorio circostante.
Nel complesso, come si era già detto, il numero delle testimonianze rimane abbastanza esiguo. Osservando la distribuzione delle presenze sul territorio preso in esame, si evince una prevalenza di attestazioni lungo o a breve distanza dal corso del fiume Tevere: Falerii Novi, Aquaviva, Passo Corese, Seripola (fig. 6). Quando si affronta il tema della diffusione dei culti egizi, si ha la tendenza a ricercare un possibile centro d’irradiamento, spesso identificato, se trattiamo di un’area geografica interna, con una vicina località portuale. In questo caso il centro d’irradiamento era costituito dalla città di Roma. Dobbiamo chiederci se abbia un senso cercare di stabilire, all’interno di un territorio solcato da percorsi stradali minori che mettevano in comunicazione i grandi e i piccoli centri abitati con gli approdi sul Tevere, e da più ampie strade come la Via Flaminia e la Via Amerina che univano direttamente l’Umbria a Roma, quale canale abbia costituito la via prioritaria per la diffusione del culto isiaco. Indubbiamente il flusso commerciale e di genti che interessava il corso del Tevere deve aver avuto un ruolo importante di cui non possiamo, però, ancora stabilirne il peso, sia per l’assenza di testimonianze, sia per la non completa conoscenza che ancora si ha del territorio. Mancano, ad esempio, attestazioni riferibili ai culti egizi da alcuni dei centri più importanti e più direttamente collegati agli impianti portuali, quali Lucus Feroniae o Otricoli. Un contributo significativo potrebbe essere attribuito, considerando l’economia fortemente agricola dell’area, all’arrivo di schiavi e di liberti. Quest’ultimi rivestirono anche una decisiva funzione nel riassetto del territorio compiuto in età augustea. Li troviamo frequentemente citati nelle epigrafi, in particolare in relazione con la promozione del culto imperiale.
La più antica delle iscrizioni recante un nome teoforo, quella di T. Fl. Isidorus da Amelia, appartiene proprio all’età augustea. Non è possibile, però, ipotizzare questo momento come indicativo per la diffusione dei culti isiaci nel territorio. I documenti epigrafici, infatti, offrono una testimonianza di culto reso da un privato, C. Metilius Saturninus, non prima della seconda metà del I secolo d.C., ma dobbiamo attendere sino alla prima metà del II secolo, momento a cui è databile l’iscrizione di C. Iulius Severus, per avere la plausibile esistenza di un tempio isiaco a Falerii Novi.
Per quanto poco consistenti numericamente, i dati in nostro possesso sembrano concordare con quanto desumibile dal contesto generale che vede una piena diffusione dei culti isiaci nel territorio interno dell’Italia centrale tra la fine del I secolo ed i primi decenni del II.
In un quadro, quindi, più ampio è possibile osservare come, in particolare rispetto alla situazione generale dell’Etruria meridionale, la fascia di territorio a breve distanza dal Tevere abbia restituito un numero nettamente prevalente di documenti. Mancano testimonianze, ad esempio, dal versante percorso dalla Via Cassia che ha, invece, lasciato significative evidenze concernenti il culto di Mitra.
Come giustamente fatto osservare dal Malaise, anche il caso influisce su quanto ci perviene, ma oltre a ciò va, forse, considerata la natura del territorio dell’Etruria meridionale, il quale era caratterizzato da una folta popolazione rurale. Questo spiega la dispersione dei ritrovamenti e perché risulta difficile, talvolta, collegarli a specifici contesti.
Stefano Francocci
Archeologo,
Direttore del Museo Civico
Archeologico di Nepi (VT)