La “Collezione Peruzzi” è composta da oltre duecento opere seriali di arte italiana contemporanea, raccolte a cominciare dal 1980. Gli artisti sono stati selezionati sulla base della loro effettiva riconoscibilità internazionale e dell’organicità all’area di appartenenza, in modo da soddisfare il progetto di collezione: rappresentare in modo esaustivo i movimenti e gli artisti italiani che si pongono ai massimi livelli per originalità e capacità propositiva rispetto al panorama delle avanguardie internazionali dalla seconda metà del Novecento. Le opere sono state accuratamente selezionate sulla base della loro qualità e della rappresentatività dell’artista.
La Collezione nel 2017 si è trasferita da Milano a Tarquinia nella “Casa Museo Peruzzi” in località “Piane del Marta” il cui arredamento è costituito da una raccolta rappresentativa della storia del mobile moderno con le opere dei più importanti architetti del movimento moderno internazionale: Le Corbusier, Wright, Jacobsen, Rietveld, Van Der Rohe, Castiglioni, Mollino, Frattini, Mari, Sapper, De Lucchi, Wegner, Ponti, Thonet, Magistretti, Ingrand, Starck.
La Collezione include le più importanti opere seriali degli informali: Afro, Burri, Capogrossi, Fontana, Vedova; dei concettuali: Agnetti, Manzoni, Parmiggiani, dei pop Baj, Rotella, Spoldi; degli scultori: Consagra, A. Pomodoro; dei programmati: Bonalumi, Calderara, Castellani, Colombo, Munari, Varisco; dei poveristi: Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini, Zorio e delle ultime generazioni: Beecroft, Bonvicini, Botto & Bruno, Cattelan, Marisaldi, Perino & Vele, Vitone.
Una pagina dedicata al rapporto tra autismo e arte, curata dall’insegnante di sostegno Roberta Straniero, specializzata nel supporto ai bambini autistici, si è recentemente aggiunta al sito.
La Collezione, oltre che essere sempre visitabile gratuitamente su appuntamento, svolge un’attività, senza alcuno scopo di lucro, di divulgazione e promozione dell’arte italiana contemporanea, con particolare riferimento all’opera moltiplicata, attraverso l’organizzazione di mostre, seminari, presentazioni e sostegno alla attività didattica.
Annessa alla Collezione è una biblioteca specializzata in arte moderna e contemporanea, anch’essa sempre visitabile gratuitamente su appuntamento, che include i cataloghi della opera multipla dei principali artisti italiani e stranieri contemporanei.
La “Collezione Peruzzi” è la dimostrazione che, anche con mezzi modesti, è possibile concretare una grande passione in un progetto culturale che contribuisca alla caratterizzazione e promozione dell’arte italiana contemporanea.
La Collezione, per la sua progettualità, organicità e rigore delle scelte, è uno dei punti di riferimento assoluti per il collezionismo di opere seriali.
La passione per l’arte figurativa è un elemento presente in me fin da bambino: mi ricordo vividamente le prime visite agli Uffizi, accompagnato da mio padre o da mio nonno (da Milano ci recavamo periodicamente a Firenze per far visita a mio nonno), e il quadro che più mi colpiva, la “Battaglia di S. Romano” di Paolo Uccello, con la potenza dei suoi cavalli colorati protagonisti della tavola degli Uffizi. I libri d’arte rinascimentale che mio padre riceveva come strenne natalizie venivano continuamente sfogliati per ammirarne le immagini e hanno accompagnato le classiche letture da bambino.
Le biografie e gli sceneggiati televisivi sulla vita contrastata dei grandi pittori creavano in me adolescente l’immagine romantica e suggestiva dell’artista eroe.
Il primo impatto emozionante e coinvolgente con l’arte moderna mi ricordo avvenne da ragazzino guardando sulla rivista “Pirelli” il servizio fotografico su Lucio Fontana al lavoro nel suo studio di Corso Monforte realizzato da Ugo Mulas nel 1964: quell’omino con i baffetti, vestito da impiegato, assorto davanti alla grande tela bianca che veniva poi squartata con un unico gesto deciso mi colpì enormemente nella sua sintesi totalizzante e definitiva.
La tempesta del ‘68 e la classica tempesta ormonale hanno presieduto le mie passioni per qualche anno.
1970 Liceo Scientifico A. Volta
1970: Approcci all’Arte
Gli studi e la laurea in Ingegneria, uniti all’impegno politico, la mia futura moglie, i viaggi con la visita dei musei d’arte (il Beaubourg !!), una mostra di grafiche di Baj al Castello Sforzesco, la mia prima casa e i primi risicati stipendi, una grande mostra alla “Permanente” di stampe originali di grandi artisti, hanno segnato la mia maturazione personale e l’orientarsi della mia passione per l’arte figurativa verso la consapevolezza di potersi completare anche nel possesso, e non solo nella visione di mostre e musei, permettendomi di poter vivere nella mia casa circondato di belle cose.
La scelta di collezionare opere multiple è stata determinata, molto banalmente, dalle mie disponibilità economiche: l’impossibilità di collezionare opere uniche di grandi artisti. Certo, l’alternativa avrebbe potuto essere quella di dedicarmi ai giovani artisti, oppure di comperare nel tempo due o tre pezzi unici, piccoli, molto piccoli, di qualche grande artista. Il desiderio di poter avere in casa le opere di artisti internazionalmente riconosciuti (i miei eroi adolescenziali) che mi emozionassero e il piacere di poter acquistare con continuità, frequentando le aste, le gallerie, i mercanti e altri collezionisti, maturando i miei gusti e orientando le mie scelte per sviluppare un progetto organico di collezione, hanno determinato la decisione di dedicarmi alle opere moltiplicate.
Quando ho iniziato ad acquistare, alla fine degli anni ‘70, le mie scelte erano molto eclettiche e legate principalmente al mio gusto del momento e all’occasione che mi si presentava. La possibilità di sviluppare il mio progetto di collezione sugli artisti italiani informali, poveri e concettuali, selezionando le loro opere di maggior qualità, è stata una decisione maturata nel tempo e legata alla mia crescita culturale e all’evoluzione del mio gusto sviluppatisi con la frequentazione dei maggiori musei d’arte moderna e contemporanea del mondo (sia per lavoro che per diletto viaggio molto), delle gallerie e delle mostre, con lo studio, unitamente al desiderio di contribuire, seppur modestamente, a valorizzare la nostra arte moderna e contemporanea più significativa.
Gli artisti sono selezionati sulla base della loro effettiva riconoscibilità internazionale e dell’organicità all’area di appartenenza, in modo da soddisfare il progetto di collezione che sto cercando di realizzare: rappresentare in modo esaustivo i movimenti e gli artisti italiani che si pongono ai massimi livelli per originalità e capacità propositiva rispetto al panorama delle avanguardie internazionali della seconda metà del Novecento. Certo, la scelta è inevitabilmente connotata di caratteri soggettivi: per esempio, mancano dalla Collezione movimenti e artisti importanti, come la Scuola Romana e, soprattutto, la Transavanguardia, che non amo e ritengo sopravvalutati. Altrettanto, non tutti gli artisti presenti in Collezione hanno il riconoscimento internazionale di Fontana, Burri, Manzoni, Boetti, Merz, Kounellis, Pistoletto, Paolini, Cattelan, ma sono in ogni caso tra i maggiori artisti del nostro Secondo Novecento. Altre volte la poesia di un’opera è tale da farmi soprassedere al rigore del progetto.
La scelta dei lavori da acquistare dipende dalla produzione dell’artista: ci sono artisti che hanno realizzato un vasto numero di opere e altri che si sono dedicati poco all’arte moltiplicata. In ogni caso, cerco di selezionare i migliori risultati raggiunti dall’autore, privilegiando quelli ove la tecnica esecutiva ha introdotto elementi di novità rispetto ai tradizionali modi della stampa originale: per esempio, l’acquaforte “Cretto Bianco”, l’acquaforte “Combustione 1963-64” e la litografia acquaforte “Grande Nero 1970” di Burri, il decoupage in alluminio e cartone rosso con buchi e l’acquaforte nera con buchi del 1963 di Fontana, la grande acquaforte acquatinta “Controcanto” e l’acquaforte acquatinta “L’isola di Cleopatra” di Afro, il bronzo “Legame” di Andrea Cascella, le tre litografie del “Trittico” e il multiplo con giornali, ferro e carbone di Kounellis, le due litografie sovrapposte e incorniciate in ferro e le 14 litografie dell’erbario di Merz, le 33 litografie “33 Erbe” di Penone, le 11 serigrafie “Leggere” di Anselmo, il gesso e carta appallottolata “Una scultura” di Parmigiani, il feltro ricamato “Il Bel Paese, 1994” di Cattelan sono sicuramente le opere più valide e rappresentative di questi artisti nella loro produzione di opere moltiplicate.
Un elemento rimane comunque essenziale per la scelta: l’opera mi deve piacere e, soprattutto, emozionare altrimenti, a dispetto della sua particolarità, rappresentatività dell’artista, tecnica esecutiva innovativa, rarità, fama, conservazione e buon prezzo, non la acquisto. Questo perché, in fondo, al di là del progetto di collezione, io acquisto opere d’arte per vedermi circondato da cose che mi piacciono e continuamente mi suggestionano.
La validità di un’opera moltiplicata, a prescindere dalla sua bellezza e dalla emozione che suscita, risiede nella sua capacità di rappresentare l’autore e non nella tecnica di stampa utilizzata. Una stampa fotolitografica (eresia !!) con interventi litografici e di collage come, per esempio, “Ettore tu sei riflessivo e prudente al pari di Zeus: ascolta” di Kounellis è sicuramente un’opera originale valida e rappresentativa dell’arte del suo autore al pari di una acquaforte di Morandi.
Esistono ormai molte tecniche esecutive, soprattutto nelle stampe degli artisti informali (basti pensare alle combustioni di Burri o a certe opere di Tapies), a cui ha sempre meno senso applicare la tradizionale scala di valore della stampa originale che poneva al primo posto l’acquaforte e a seguire, in ordine di valore, la litografia, la xilografia, la serigrafia, con le loro varianti in relazione al materiale della matrice, unitamente al numero di fogli stampati, per giudicare la validità di una stampa originale. Per i multipli, poi, non esiste, ovviamente, alcuna caratterizzazione per un riferimento di valori. Sicuramente, invece, la tecnica di esecuzione, il numero di esemplari dell’edizione, la catalogazione e la riproduzione su libri, lo stato dell’opera influiscono in maniera sostanziale sul suo valore commerciale, unitamente, come ovvio, al mercato dell’autore.
Non si può negare che -mentre il mercato dell’arte, soprattutto quello dell’arte contemporanea, stia dando importanti segnali di ripresa- quello della stampa originale e, più in generale, dell’opera moltiplicata, continui a contrarsi. Negli anni ‘80 era una pratica molto diffusa acquistare grafica per abbellire le pareti del soggiorno di casa, magari solamente con le litografie degli autori più commerciali: mi ricordo che alla Casa d’aste “Finarte” si battevano due sedute d’asta all’anno dedicate esclusivamente alla grafica. Le ragioni della crisi sono molteplici e non desidero qui approfondirle, anche se si può affermare che la crisi economica ha colpito in maniera decisiva questo tipo di mercato, insieme alla sua delegittimazione causata dal diffondersi del concetto che la stampa d’arte o un multiplo siano una riproduzione e non un’opera moltiplicata originale (molti i colpevoli).
La Convenzione di Vienna del 1960 e, più recentemente, la Dichiarazione di Venezia del 1991, hanno stabilito regole che sono a mio avviso fondamentali per la salvaguardia dell’opera moltiplicata e la diffusione del suo collezionismo: da questi temi passa il rilancio del settore attraverso una forte attività da parte di tutti gli operatori e gli appassionati con la promozione di mostre specializzate, la valorizzazione delle importanti istituzioni dedicate alla stampa originale presenti in Italia, la divulgazione attraverso la stampa specializzata e non, il diffondersi anche su Internet di siti ad essa dedicati, magari modesti come questo da me realizzato. Un punto di arrivo di uno sforzo comune potrebbe essere quello di organizzare in Italia una Fiera annuale esclusivamente dedicata all’opera moltiplicata (non occorrono grandi numeri per cominciare) accompagnata da un convegno specializzato.
Io credo che la “Collezione Peruzzi” dimostri la possibilità che, con mezzi economici alla portata di molte persone, sia possibile concretare una grande passione per l’arte realizzando un progetto culturale di valore.
La “Collezione Peruzzi” è una raccolta di grafica di grande rilievo, che documenta in modo ampio e esauriente le principali tendenze artistiche italiane dagli anni Cinquanta agli anni Settanta circa, attraverso opere di molti fra i principali protagonisti dell’Informale (Giuseppe Capogrossi, Lucio Fontana, Alberto Burri, Pietro Consagra, Emilio Vedova, Afro, Arnaldo Pomodoro), del design creativo (Bruno Munari), di diversi aspetti della scultura (Fausto Melotti, Arnaldo Pomodoro, Andrea Cascella, Alik Cavaliere, Mauro Staccioli, Giuseppe Spagnulo) della Pop Art (Mimmo Rotella, Valerio Adami), dell’Arte Concettuale (Piero Manzoni, Vincenzo Agnetti) e soprattutto dell’Arte Povera (Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giulio Paolini, Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Gilberto Zorio, Giuseppe Penone, Luciano Fabro, Pier Paolo Calzolari, Emilio Prini, Gianni Piacentino e anche per certi versi Claudio Parmiggiani.
L’Arte Povera è la tendenza italiana degli anni ’60-’70 che ha avuto il maggior successo a livello internazionale. A partire da presupposti teorici e operativi comuni, gli esponenti di questo gruppo hanno sviluppato la loro ricerca in termini personali, e tuttora sono attivissimi sulla scena dell’arte (salvo purtroppo Boetti, morto nel 1994, Merz, mancato nel 2003 e Fabro, scomparso nel 2007).
Il critico Germano Celant nel 1967 (ispirandosi al termine “Teatro povero” di Grotowski) definisce come “Arte Povera” il gruppo che comprende, oltre agli artisti già citati, Pino Pascali, Emilio Prini, Pier Paolo Calzolari, e anche inizialmente Piero Gilardi, Mario Ceroli, Paolo Icaro e Gianni Piacentino. Si tratta di un’area di ricerca strettamente connessa alle esperienze europee e americane della Process Art e della Conceptual Art. L’Arte Povera è uno stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza mentale e fisica. È indirizzata a presentare il senso e il significato fattuale delle cose reali quali entità naturali, animali, vegetali, ma anche industriali. È la valorizzazione dell’elemento primario (terra, acqua, fuoco, animali, energia, elementi quotidiani). È una “fisicizzazione” dell’idea e di una conoscenza fisica; un’idea tradotta in materia. Così commenta Celant alla prima mostra del gruppo “Arte Povera- Im Spazio”, da lui organizzata nel 1967 alla Galleria “La Bertesca” di Genova:
“I lavori di Paolini, Boetti, Fabro, Kounellis, Pascali, riguardano fondamentalmente archètipi mentali e fisici, tentano di evitare ogni complicazione visuale per offrirsi come “dati di fatto”. I singoli lavori dimostrano una tendenza generale all’impoverimento e alla “deculturalizzazione” dell’arte. Sono un “Contenitore di carbone” (Kounellis), una “Catasta di tubi di eternit”, una “Tautologia del pavimento” (Fabro), “Due cubi di terra” (Pascali), “La lettura dello spazio” (Paolini) e “Il perimetro d’aria di un ambiente connotato sonoramente e visivamente” (Prini).
La definizione di “Arte Povera” viene precisata nel testo programmatico “Arte Povera”: “Note per una guerriglia” ( “Flash Art”, novembre-dicembre 1967) e in quello che accompagna la seconda mostra “Arte Povera” alla galleria De’ Foscherari di Bologna (inizio 1968) dove si parla fra l’altro di “Un’arte che trova nell’anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo comportamentistico il suo massimo grado di libertà ai fini della creazione”, e si sottolinea in particolare il carattere tautologico dei valori: “L’Arte Povera, un esserci teso all’identificazione, cosciente, reale=reale, azione=azione, pensiero=pensiero, evento=evento, un’arte che predilige l’essenzialità informazionale”.
Un certo numero di artisti del gruppo partecipa alla fondamentale esposizione “When Attitudes Become Form”, curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna, in cui per la prima volta viene messa a fuoco la situazione internazionale che comprende oltre ai “Poveristi” gli esponenti americani ed europei della “Process Art”, “Land Art”, e “Conceptual Art”. Dopo questa mostra, nello stesso anno, Celant pubblica il libro “Arte Povera”, dove questa definizione viene utilizzata in modo allargato non solo per designare gli italiani, ma anche gli altri artisti europei e americani con analoghe attitudini di ricerca. In tutto sono trentasei, invitati a usare liberamente le cinque o sei pagine del volume messe a loro disposizione: Andre, Anselmo, Barry, Beuys, Boetti, Boezem, Calzolari, Walter De Maria, Dibbets, Fabro, Flanagan, Haacke, Heizer, Hesse, Huebler, Kaltenbach, Kosuth, Kounellis, Long, Merz, Morris, Nauman, Oppenheim, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini, Ruthenbeck, Serra, Smithson, Sonnier, Van Elk, Walther, Weiner, Zorio e il “Gruppo teatrale dello Zoo”. Ma in ogni caso l’etichetta, per quanto fortunata, rimarrà a indicare solo il gruppo degli artisti italiani.
Molto in sintesi cercheremo ora di mettere a fuoco i caratteri peculiari del lavoro dei principali “Poveristi”: la ricerca di Pistoletto è programmaticamente variata e poliforme, opposta a ogni schema formalizzante e a ogni aspettativa codificata: si progetta continuamente all’interno di una serrata dialettica fra arte e vita, oggetto e comportamento; partita dai quadri specchianti del 1962, prende corpo al di là della dimensione dell’apparenza nella concretezza dello spazio-tempo della realtà vitale, con una moltiplicazione di oggetti, installazioni e anche performances (in particolare in collaborazione con il “Gruppo dello Zoo”). Fondamentale per tutti gli sviluppi successivi è la realizzazione, nel 1965-66 del gruppo degli “Oggetti in meno”, un eterogeneo insieme di oggetti bizzarri, “poveri”, pseudofunzionali e paraminimalisti, caratterizzati da valenze imprevedibili e ironiche. Anche i successivi lavori, specificamente “poveristi”, realizzati nel 1967-69 si basano su questi criteri: sono oggetti e installazioni di forma molto libera e fluida, con un carattere intenzionalmente effimero. Di gioiosa e ironica vitalità sono i lavori con gli stracci multicolori: il “Muro di stracci”, mattoni ricoperti di scampoli di stoffe; “L’Orchestra di stracci”, un mucchio informe di stracci con un bollitore in azione all’interno, coperto da una lastra di vetro; e la “Venere degli stracci”, un calco di una statua classica appoggiata su un mucchio di stracci. Gli interventi dell’artista assumono anche, in certi casi, un carattere concettuale.
L’ironia contraddistingue, in particolare, le opere di Boetti: il suo lavoro è caratterizzato all’inizio dall’uso di materiali come rotoli di cartone, tubi di eternit, tele mimetiche e si sviluppa successivamente soprattutto in direzione concettuale, non nei termini freddi e rigorosi dei esponenti anglosassoni della tendenza, ma con valenze ludiche attraverso la realizzazione di oggetti, disegni, arazzi (ricamati da donne afgane) e “Mail art”, lavori connotati dal gusto per i giochi combinatori di segni e parole, dall’invenzione di procedimenti operativi arbitrari, e dalla volontà di descrivere in forma inedita la realtà politica e geografica.
Complessa e imprevedibile è la posizione di Fabro che si configura come una raffinata e sottile investigazione dello spazio in lavori del 1965-67 e poi come una fantasiosa e ironica utilizzazione di materiali poveri. È il caso delle “Lenzuola” e delle “Italie” (esposte nel 1969). Le lenzuola sono appese al muro in tre differenti maniere che non si limitano a enfatizzare l’effetto della forza di gravità ma alludono anche ai panneggi dell’arte classica, le “Italie”, costituite da materiali diversi (cristallo, piombo, ferro, pelle ecc.) sono appese al contrario o appoggiate al muro; liberata dai suoi vincoli geografici e dal modo convenzionale di interpretazione, la forma dello stivale acquista una libertà di significati che rovescia ogni luogo comune fa riflettere sul senso dell’identità di una nazione.
Il segno distintivo della ricerca di Calzolari è la presenza di elementi del tutto congelati (tramite un procedimento da frigorifero) in lavori dove compaiono insieme oggetti e scritte con risultati di spaesante poeticità; del 1969 sono tre opere: “Un flauto dolce per farmi suonare”, una superficie congelata con la scritta del titolo in rilievo e un vero flauto appoggiato; “Impazza angelo artista”, una struttura a pavimento dove un tubo congelato è piegato, alla stregua di un tubo al neon, in modo da presentare la frase del titolo e infine “Il mio letto così come deve essere”, dove questa scritta congelata è posata su un materasso.
A partire dal 1967, con “Margherita di fuoco”, Kounellis mettere direttamente in gioco il fuoco; utilizzando tavolette di metaldeide accese o, soprattutto, fiamme ossidriche con bombole a gas, realizza installazioni variamente articolate su lastre di ferro, con reti metalliche o semplicemente in rapporto con lo spazio espositivo, collocando le fiamme sul pavimento o intorno sui muri. In questo modo lo spazio viene intensamente sensibilizzato dall’energia primaria della luce e del calore, con riferimenti sia alla sacralità primitiva sia alla civiltà industriale. Nel 1967-69 arriva a coinvolgere direttamente la natura vivente nello spazio dell’arte, mettendo in scena dei cactus, un pappagallo e addirittura 12 cavalli nella galleria di Sargentini a Roma.
Il lavoro più tipicamente poverista di Kounellis prende corpo attraverso l’elaborazione e la presentazione di materiali come i sacchi di iuta cuciti su telai di ferro, o semplicemente esposti pieni di granagli, riso, caffè; la lana grezza su pali e telai; il cotone o il carbone presentati in contenitori metallici. Frequente è l’uso di lastre e mensole di ferro come supporti di ogni tipo di materiali o oggetti; spesso compaiono elementi della memoria culturale classica.
La concezione dell’arte di Merz è connotata da una visione romantico-naturalistica del mondo inteso come un sistema di energie vitali continuamente in espansione a tutti i livelli, da quello della realtà umana quotidiana e politica a quello delle forze naturali di crescita e sviluppo. Il lavoro dell’artista, con tutto il suo potenziale creativo interagisce con gli oggetti e le forze naturali e sociali in azione, creando delle opere che si pongono come nuclei attivi di energia estetica, di sollecitazione sensoriale e immaginativa. Tipico del suo linguaggio è l’uso di tubi al neon con cui trafigge oggetti e scrive frasi come quelle collocate sulle sue strutture a forma di “igloo”. Gli “Igloo”, intesi come archètipi dello spazio abitativo, ma anche come metafore del mondo esterno e di quello interno della mente, vengono realizzati con i materiali più disparati tra cui lastre di vetro, lastre di pietra, sacchetti di sabbia, fascine di legna, tele di iuta. Nel 1970 comincia a utilizzare per i suoi lavori e le sue installazioni spaziali lo schema progressivo della serie “Fibonacci” (1, 1, 2, 5, 8, 13, 21 e così via, dove ogni numero è la somma dei due precedenti), una proliferazione che ha un rapporto con quella della crescita naturale, e che diventa simbolo dello sviluppo e dell’espansione vitale in tutti i campi.
La materia prima che contraddistingue ogni lavoro di Zorio è l’energia nelle sue forme più diverse: tensione di gravità, energia chimica, energia elettrica (luce e calore), laser, tensione elastica specifica dei materiali, energia fisica dell’uomo. Le sue opere sono sistemi attivi di energia che coinvolgono il contesto e anche lo spettatore, innescando una sorta di sollecitazione estetica sensoriale, anche pericolosa: presenza di acidi chimici (in “Piombi” del 1968); resistenze elettriche incandescenti (“Arco voltaico” del 1969, dove l’elettricità attraversa una pelle di vacca conciata; tracce di azioni violente (“Odio” del 1969, una semplice scritta realizzata a colpi di accetta sul muro). Una delle forme privilegiate dall’artista è quella della stella, come emblema dell’energia cosmica, che viene realizzata per esempio con barre incandescenti, con giavellotti incastrati fra loro o con raggi laser nello spazio.
Nell’opera di Anselmo sono in gioco lo spazio, il tempo, il movimento, l’energia, le forze di gravità e magnetiche, le torsioni, le opposizioni fra materiali differenti (per esempio il granito e l’insalata); è in gioco la luce e anche opposizioni di concetti come finito-infinito. Tutto questo si ritrova non in termini metaforici ma come presenza immanente alla materia e allo spazio fisico. L’elasticità e la tensione dei materiali sono il tema centrale di molti lavori tra cui le “Torsioni” del 1968. La dialettica fra finito e infinito viene indagata a fondo attraverso installazioni fortemente connotate in senso concettuale ma anche strettamente connesse all’espressività diretta dei materiali. Per esempio, con una bussola incastrata in una lastra di pietra grezza triangolare la cui punta è in direzione nord; oppure con la proiezione di scritte come “Particolare” o “Visibile” sui muri (1971-72). La forza di gravità è presentata, per così dire, allo stato puro nei pesanti blocchi di pietra attaccati in alto sui muri con dei cavi d’acciaio in una situazione di straniante sospensione sia fisica che mentale (dal 1969).
Infine, la ricerca di Giuseppe Penone (che inizia ad esporre nel 1968-69) si contraddistingue, in particolare, da un lato per una investigazione delle forze naturali di crescita degli alberi in rapporto all’azione umana e, dall’altro lato, per una serie di analisi sulle soglie sensoriali del corpo umano in rapporto alla realtà esterna. I suoi lavori più noti sono delle travi squadrate al cui interno, attraverso un lavoro di scavo, viene riscoperta la forma dell’albero con i suoi rami, così come era in un’età più giovane.
A parte va considerato il caso di Giulio Paolini, il cui percorso di ricerca tocca solo marginalmente l’Arte Povera e si inquadra meglio nell’ambito dell’Arte Concettuale. Fin dall’inizio (1960) il suo è un procedere all’interno dell’universo dell’arte figurativa, un’analisi sui dati concreti della sua esistenza: la tela, il telaio, i colori, lo spazio espositivo, la firma dell’artista, l’occhio dello spettatore. In questa indagine autoriflessiva entrano in scena anche le immagini citate dalla storia dell’arte, come per esempio in “Giovane che guarda Lorenzo Lotto” (1967), un affascinante spostamento mentale nello spazio e nel tempo dell’osservatore.
Francesco Poli è nato a Torino nel 1949; laureato in filosofia, già professore di “Storia dell’Arte Contemporanea” dell’Accademia di Belle Arti di Brera, è anche professore alla Sorbona a Parigi e all’Università degli Studi di Torino con una cattedra di “Arte e Comunicazione”. Francesco Poli scrive regolarmente per numerose riviste e giornali d’arte, tra cui “Tema Celeste” e il quotidiano “La Stampa”. È anche critico d’arte per il quotidiano “Il Manifesto” ed è specializzato soprattutto sull’arte del XX secolo. È autore di numerose pubblicazioni sulla storia dell’arte contemporanea.